In un momento in cui si recitano (giustamente) le odi della visionarietà, un incidente di percorso accaduto ad una cara collega (la non ammissione ad un dottorato di ricerca con un ottimo progetto) ed alcuni scambi al proposito, mi sollecitano una riflessione che potrebbe sembrare andare controcorrente.Una riflesione che spesso faccio anche a proposito delle cose che faccio io.
Spesso siamo capaci di concepire grandi progetti, progetti di cui ovvamente ci innamoriamo. Sono spesso idee “innovative”, di grande valore intrinseco, stupende, ben congegnate, che potrebbero, anche, avere un senso per il contesto per il quale le abbiamo pensate. Quindi nulla di disancorato, in senso assoluto, dalla realtà.
Capita, però, che spesso ci sfugge la questione principlae: se quella idea davvero serva alla realtà per cui la stiamo pensando, se sia proprio quel progetto in cui noi crediamo fermamente quello di cui quella realtà ha in questo momento bisogno.
O se quello che serve non sia qualcosa di più semplice, di più “normale”. Meno edificante per il nostro narcisimo visionario.
Qualcosa che risponda ad un bisogno reale, qualcosa che possa davvero incidere nella realtà e migliorarla, qualcosa i cui effetti si possano vedere.
Qualcosa che sia davvero in grado di scardinare l’inerzia, la stanchezza, la depressione, il conservatorismo di quella realtà ed avviare un circolo virtuoso.
Forse è più difficile identificare, in questa prospettiva, il punto critico di intervento in una realtà, un punto ben focalizzato, microscopico (quasi un punto G), identificare la giusta strategia di avvicinamento e di intervento e far scattare la scintilla dell’innovazione. A volte le “grandi” idee ci portano lontani dalla realtà e ci precludono l’opportunità di migliorarla.
Senza perdere una visione strategica, senza mortificare la nostra natura di visionari.
Scimiottando Steve Jobs mi verrebe da dire (in primis a me stesso) “siate semplici, siate concreti” . Scusa Jobs se proprio pensando a te formulo un pensiero così terra terra.