Non è la prima volta che un post di Pier Cesare Rivoltella, uno di pochi accademici dei piani alti che si espone attivamente nei social network, mi stimola una riflessione che cerco di fissare in un mio post.

Questa volta il post di stimolo è  Le tecnologie e il “mestiere dello scienziato” dove Pier Cesare presenta una sintesi di un suo intervento tenuto ad un recente convegno.

Questo post riguarda chi può dirsi “scienziato” oggi, qui da noi, ossia chi produce conoscenza autentica. Chi  lavora e fa “ricerca” i cui risultati aiutano la scuola, gli educatori, gli insegnanti, i formatori a fare meglio il loro lavoro.

Come spesso succede, almeno a me, si legge una cosa e parte un pensiero che ho poco a che vedere con ciò che lo ha attivato. Forse è, anche, il caso di questo post che prende strade sue proprie.

Per chiarire il contesto, Pier Cesare propone una riflessione sul ruolo dello “scienziato” e le sue mutazioni nell’era della rete e non si risparmia una critica al modo di fare ricerca e di essere “scienziati” oggi. Critica che, ovviamente, condivido.

Alla base della sue riflessione sta la categorizzazione che Pierre Bourdieu fa del discorso scientifico: da una parte sta il repertorio empirista e dall’altra quello contingente. Scrive Rivoltella:

Il repertorio empirista è la retorica ufficiale della comunità scientifica: essa si esprime nei papers pubblicati sulle riviste e adotta una forma di comunicazione formale basata sull’espulsione della sfera soggettiva, sulla impersonalità, sulla controllabilità. Il repertorio contingente, invece, si esprime all’interno dei rapporti informali che gli studiosi hanno tra loro. Esso è fatto di intuizioni non dimostrate, di pratiche apprese con l’uso, di tutto il portato di cui il vissuto personale del ricercatore è costituito.

Da sottolineare l’annotazione che Rivoltella fa su ciò che veramente conta nella comunità scientifica:

Queste due retoriche coesistono, anche se in forma ipocrita la comunità scientifica tende a nascondere la seconda costruendo così l’immagine ingannevole di un discorso scientifico che è il riflesso puro e semplice di una “conoscenza conoscente”

Rivoltella afferma, ecco la parte che mi interessa, che

… se “dietro” quel discorso formale non ci fosse un habitus, «un “mestiere”, cioè un senso pratico dei problemi da trattare, dei modi più adeguati di trattarli, ecc.» (Bourdieu, 2003; 54) non avremmo neppure il discorso formale: «Questa padronanza pratica è una sorta di “connoisseurship” (arte del conoscitore) che può essere comunicata attraverso l’esempio, e non per via di precetti (contro la metodologia)

Il punto è quali siano le pratiche reali che caratterizzano il discorso dello scienziato e lo rendono veramente utile. E qui cade l’asino. Come Rivoltella testimonia, l’autorevolezza “scientifica” è determinata solo dal “repertorio empirista” cioè dalla parte ufficiale, formale del lavoro dello scienziato. Il guaio è che, questa è una mia affermazione, con il tempo questo repertorio formale abbia assunto vita e significati propri e sia diventato fine a se stesso  (per la verità questa idea mi pare di intravederla anche in ciò che scrive Pier Cesare ma non voglio forzare il suo pensiero).

Con il dare valore solo al “repertorio empirista” si sono consolidate delle pratiche (“pubblicare”) che hanno portato a dissociare la pubblicazione e ciò che sta alla sua base (il lavoro di ricerca, si presume), dal suo impatto reale essendo significativo solo l’impatto di riconoscimento da parte della comunità scientifica (… il duplice dispositivo dell’Impact Factor e dell’H-Index, PCR) e non l’utilità di ciò che si scrive ha per la comunità degli utilizzatori della conoscenza prodotta attraverso il lavoro di ricerca.

A partire da queste considerazioni ci si può domandare quale sia il reale impatto del lavoro dello “scienziato” oggi nel progresso del lavoro di chi  quel lavoro dovrebbe utilizzare.

Mi piacerebbe conoscere quanti e quali siano gli avanzamenti che le pratiche didattiche oggi in uso abbiano fatto a seguito del lavoro degli scienziati della nostra comunità scientifica. A sentire il disorientamento di tanti insegnanti alle prese con gli studenti di oggi e a guardare la loro operosità e la loro costante sperimentazione (impare facendo), non sembrerebbero tanti.

Sarà che io sono esterofilo per natura, ma se voglio conoscere qualcosa di nuovo, mi devo leggere solo letteratura straniera (pur comperando e leggendo tante pubblicazioni nostrane). Vedo pochissima nuova conoscenza prodotta dalla ricerca dei nostri scienziati (scienziati che vedo pochissimo citati in letteratura internazionale).

Cosa si fa, oggi, in  ambito accademico italiano? Si fa autentica ricerca? Si produce nuova conoscenza? O si fa opera di divulgazione di lavori fatti da altri?

La mia sensazione è che all’università si faccia poca ricerca autentica, quella che produce nuova conoscenza (nuova in senso globale, internazionale) che aiuta, direttamente o indirettamente, gli utilizzatori (nel nostro caso gli insegnanti ed i formatori) a migliorare il loro lavoro e, invece, si faccia tanto lavoro, di ottima qualità, non è questo il problema, di compilazione a partire dal lavoro di altri, di divulgazione in lingua italiana del lavoro di scienziati internazionali, di rilettura e di ricomposizione dei loro lavori. O, bepera importante ma che non è certamente quella dello “scienziato”, bensì quella del divulgatore, dell’ “esperto”.

Ho la sensazione che il lavoro di tanta università sia scivolato verso quello che viene definito di “practitioner” (non a caso usato in contrapposizione a “scholar”), di “professionista” (cioè profondo conoscitore di un dominio) che è in grado di raccogliere lo stato dell’arte internazionale e di offrire, “allo stato dell’arte” stesso, servizi di consulenza, di orientamento, di supporto, di supervisione, di monitoraggio di attività operative.

Se il lavoro di innovazione non viene fatto attraverso la conoscenza prodotta all’università e nei centri di ricerca, chi  produrrà  la nuova conoscenza che a sua volta  genera gli avanzamenti individuali e collettivi della nostra comunità dei “pratici” della didattica?

Secondo me i veri “scienziati”, quelli che producono la nuova conoscenza che migliora le pratiche sono proprio gli insegnanti più avveduti, quelli più riflessivi, quelli più abituati a confrontarsi ed a condividere le proprie pratiche, quelli che si espongono (rischiando) in rete e che collaborano in rete.

Sono questi gli “scienziati” che innovano (lentamente, molto lentamente) la scuola e lo fanno attraverso quella che Bourdieu citato da Rivoltalla chiama il “repertorio contingente” del proprio discorso, della propria pratica, quelli che hanno

«…un “mestiere”, cioè un senso pratico dei problemi da trattare, dei modi più adeguati di trattarli, ecc.» (Bourdieu, 2003; 54)

A innovare non sono quelli che Bourdieu chiama i

“centrali”, gli “ortodossi”, i “continuatori”

ma gli scienziati

“marginali”, … “eretici”,  … “novatori”

quelli che lavorano con dedizione, costanza, intelligenza sulle proprie pratiche e per questo le migliorano e le innovano. Perchè sono intrinsecamente motivati e spint dall’urgenza di pratiche efficaci a fare meglio il proprio lavoro e non ad incrementare il loro … Impact Factor.

Il problema è che a questi “scienziati” non viene riconsociuta dignità di scienziato perchè non fanno parte della retorica  ufficile della comunità scientifica, perchè non si sono mai inseriti in essa e perchè, forse, non hanno mai avuto interesse loro farlo.

Mi fa piacere che Pier Cesare, in chiusura del suo post citi come esempi di discorsi professionali portati avanti da “ricercatori” presenti in rete e capaci di influenzare le pratiche educative, tanti insegnanti che interagiscono in gruppi e social network come “la scuola che funziona” e “Insegnanti“.

Per concludere, riallacciandomi ancora al post di Rivoltella, la rete come luogo e metodo per portare avanti all’interno delle comunità dei pratici (i soggetti della pratica) la “retorica contingente” ed attraverso questa fare ricerca autentica (autentica perchè utile). Fare ricerca (e “scienza”) anche al di fuori dei luoghi tradizionalmente e convenzionalmente deputati alla produzione di conoscenza. La rete come luogo di “esposizione” del pensiero (scientifico) nel suo divenire, nel suo affinarsi da provvisorio e spezzettato a sistematico e riconosciuto. O, senza diventare sistematico e sistematizzato, mantenuto sempre aperto e sempre in costruzione quale è la natura della conoscenza. La rete come nuova epistemologia per la una nuova scienza fatta (anche dall’università) non sulle categorie professionali verso le quali la sua ricerca si sviluppa (Rivoltella),  ma CON loro quali partner imprescindibili di una ricerca e di una scienza utile.

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12 pensiero su “L’insegnante “scienziato””
  1. Mhmmm, di che tipo di scienziati stai esattamente parlando Gianni?
    Io ho lavorato per 11 anni fianco a fianco con gruppi di ricerca internazionali in campo biologico. E’ innegabile che all’estero c’è sempre stata un’attenzione particolarissima alle ricadute culturali pubbliche del lavoro scientifico, al dibattito, al confronto con la società. E questo pur mantenendo fede al cosiddetto “repertorio empirista”.
    Un’intera branca di attività viene definita public understanding of science e da decenni coinvolge gli scienziati (per lo meno molti di loro che lavorano nell’ambito delle scienze sperimentali) a contatto diretto con il pubblico: insegnanti, ma non solo; economisti, filosofi, giornalisti, amministratori e gente comune (nel significato più bello che io personalmente attribuisco al termine).
    La rete non ha fatto altro che enfatizzare quindi un rapporto già esistente, perlomeno all’estero (pur con tutti i problemi evidenziati da Rivoltella).
    Il ritardo, la paura del confronto, l’aggrapparsi ad una posizione “accettata” “pubblicata” “sicura” è una questione italiana che non riguarda a mio modesto parere soltanto un ritardo culturale. Esistono problemi di fondi disponibili (pochi) l’acquisizione dei quali spesso dipende proprio dai rapporti di potere e di riconosciuta “attendibilità” degli studi (e conosciamo a volte quali strade compromissorie comporta il riconoscimento di attendibilità nel nostro paese).
    Quindi, con atteggiamento più pragmatico (paradossalmente) credo si debba indagare il problema partendo da due punti di vista: la formazione dei nostri scienziati in merito al loro rapporto con il pubblico e la cultura in genere; e piccoli-grandi drammi legati alle tortuosità anche politiche di un mondo dell’università e della ricerca fatto da piccoli imperi, piccole province, lotte tra poveri, rischi di esclusione.

  2. Paolo, molto pragmaticamente, lo scienziato è quello che produce nuova conoscenza (nuova rispetto alla scena internazionale)e questa nuova conoscenza produce un avanzamento anche operativo nel dominio di riferimento. Direttamente o indirettamente. Nel nostro caso la ricerca pedagogica e didattica dovrebbe aiutare gli insegnanti a fare meglio il loro lavoro, dovrebbe, cioè, fare in modo che, in ultima analisi, le persone imparino di più e meglio. Quello che (retoricamente) mi domando è se nelle nostre università si abbia un orientamento da scholar o da practitioner. Se, cioè, si produca nuova conoscenza che viene usata nelle scuole o se ci si limiti a diffondere conoscenza prodotta da altri. E’ certamente utile “trasferire” nelle nostre scuole conoscenza prodotto all’estero considerata, anche, la nostra scarsa propensione alle lingue straniere e farlo in modo intelligente, contestualizzato, consapevole dei vincoli del contesto ecc…. Non è cosa facile ed alla portata di chiunque si legga 5 libri in inglese. Ma fare questo è altro dal fare lo scienziato. Ed io ho ancora l’idea che all’università si faccia ricerca, si produca nuova conoscenza. Anche Olimpo CNR nutre dubbi sulla qualità della ricerca (nelo specifico delle tecnologie didattiche) https://www.giannimarconato.it/2008/10/siel-08-le-verita-di-olimpo/ , ultima parte del vecchio post

  3. Mi ritrovo davvero molto nel tuo post e negli argomenti di Rivoltella.

    Ho avuto la fortuna di fare ricerca per oltre 25 anni nel campo delle metodologie fisiche, matematiche e informatiche per la ricostruzione di immagini mediche, pubblicando sulle riviste internazionali di riferimento per questo settore, coordinando progetti, locali, nazionali e europei, cooperando con i migliori gruppi nel mondo, sempre nel campo in questione.

    Mi ha sempre colpito il divario fra il lessico, le metafore, il parlato e pensato quotidiano nel laboratorio, insomma la vita vera, e la formalizzazione di tutto questo (sto sintetizzando di molto ma ci si capisce). Al punto che sono diventato con il tempo sempre più critico e scettico nei confronti della letteratura scientifica, cui ho pur contribuito, e del linguaggio accademico, che cerco quasi sempre di evitare.

    Il discorso sarebbe lungo, ma diciamo che questa letteratura soffre di enorme ridondanza e di non pochi problemi di qualità, che derivano da conflitti di interesse e obiettiva difficoltà a far convivere un processo di peer reviewing, già di per se largamente subottimale, con un volume esorbitante di articoli da valutare.

    Un po’ complice la difficoltà di lavorare in Italia, ma non solo, verso la soglia dei cinquant’anni ho scoperto il web, anzi meglio il cyberspazio (non è la stessa cosa), dove posso finalmente dar libero corso alla mia propensione all’esplorazione.

    Mi sento sempre più lontano dall’Accademia, e ad essa indifferente, pur riconoscendo di avervi potuto operare e crescere in libertà, questo sì. Ma ora che da circa un lustro, vivo praticamente nel cyberspazio, non mi sono mai sentito altrettanto libero di ricercare, imparare e sviluppare soluzioni che finiscono con l’avere ricadute assai concrete nelle ampie popolazioni di studenti con i quali mi trovo a lavorare.

    Io sono d’accordo con personaggi come Peter Drucker, Don Tapscott, Ken Robinson, Stephen Downes, i quali, da punti di osservazione e in modi molto diversi, vedono un futuro nero per l’Accademia, almeno in questa forma. A parte le famose eccellenze, in tutti i campi e in tutti i luoghi, il prodotto totale dell’Accademia è oggi caratterizzato da un modesto tasso di innovazione, rispetto a qanto si immagina,rispetto a quante risorse assorbe e rispetto alla quantità di innovazione che vede la luce altrove.

    Detto questo, più in particolare, sono stato molto colpito dalla differenza fra la letteratura scientifica italiana e quella internazionale nel campo della scienza della formazione.

    In quella internazionale ho ritrovato metodologie di indagine e strumenti di analisi del tutto analoghi a quelli che ho visto applicare negli anni passati nella ricerca biomedica. Quella italiana, almeno quella che mi è capitato di vedere, è molto diversa, molto più discorsiva, più orientata al saggio.

    Non mi posso permettere di formulare giudizi, tanto più dopo la premessa generale che ho fatto sulla ricerca scentifica internazionale, ma è una differenza che mi ha colpito molto.

  4. Mi piace l’ipotesi dell’insegnante scienziato.
    Mi piacerebbe anche ragionare sulla possibile costruzione di questa figura; non nego che esista; ma mi sembra ottimistico considerarla una realtà diffusa.
    L’essere scienziato-insegnante non significa solo (so bene che non ho niente da insegnare a nessuno qui) fare ricerca-azione, ma sottoporla e sottoporsi a verifiche neutre, fredde, non emotive.
    Esporsi in rete va molto bene, ed è da apprezzare: a patto che l’esposizione non implichi e sottintenda una approvazione incondizionata o l’astensione dal giudizio non positivo altrui.
    Noi docenti o gruppi di docenti che ci proponiamo in rete e ci esponiamo, sappiamo poi essere così disponibili alle osservazioni scientifiche altrui o tendiamo a replicare lo schema della cordata da chat amicale e del consenso reciproco? (Mi-piace/rubo!/wow! ecc ecc?)
    Abbiamo questo coraggio? Direi che un coraggio di questo tipo è una qualità etica che, considerato che è in gioco una posta alta, dovremmo coltivare.
    A me non capita di veder linkato un “prodotto” esibito da un docente (specie da blog didattici) a cui sia risparmiata una dolce mielata pioggia di approvazione e per questi motivi il fattore “perplessità zero” mi dà un po’ da pensare.
    Qualche mese fa io stessa ho fatto un piccolo esperimento su fB; ho espresso qualche dubbio sull’opportunità di svolgere i programmi di Italiano alle Medie preferendo autori classici ad autori non classici (è un argomento che mi sta a cuore, ma non vorrei dettagliare troppo).
    Provocai reazioni furibonde degli/delle scienziati/e professori/esse interessati e che insorsero indignati chiamando in soccorso amici e parenti (non scherzo).
    E’ possibile che sia stata malaccorta o sfortunata io; ma mi chiedo: lo superiamo questo empasse o continuiamo a darci tutti ragione?

  5. Non sono sicuro che tu possa trovare questo in rete.

    Nel cyberspazio godi di libertà d’espressione e libertà di movimento – per ora e forse non per molto – ma questo implica precise caratteristiche.

    Nel cyberspazio prevale una forza attrattivo-repulsiva molto semplice che è quella in gioco in una qualsiasi comunità di animali sociali in libertà. Ogni volta che un individuo percepisce un nuovo stimolo, lo elabora per produrre una reazione ad esso, che può andare dalla totale repulsione all’entusiastica attrazione. Quando l’individuo gode di effettiva libertà di azione, succede una cosa molto semplice: se giudica lo stimolo positivo si avvicina e se lo giudica negativo si allontana.

    La rete funziona così, e se ne preserviamo la natura iniziale – è in ampie parti già compromessa – non è ne giusta ne sbagliata. Semplicemente *è* così, come tante altre reti in natura.

    Una vaga misura del dissenso ad un blog è sepolta nelle sue statistiche di accesso. Sepolta, in particolare fra tutti quegli accessi che rimangono unici o si riducono ad un piccolo numero di visite per risolversi nella dipartita del visitatore. Sfortunatamente non si può considerare una misura di dissenso perché è indistinguibile dal contributo di coloro che sono solo marginalmente interessati ai temi trattati dal blog.

    La rete non può produrre verifiche neutre, che possano cioè essere obiettivamente sia negative che positive. Per produrre effetti del genere bisogna ricorrere alla chiusura del contesto. Due galli in libertà si fronteggiano teoricamente: quello che riesce a dare all’altro la sensazione che lui sia più forte avrà la meglio e il suo contendente se la darà semplicemente a gambe. Se tu poni gli stesi due galli in un recinto, uno dei due ammazzerà l’altro.

    D’altro canto, nei recinti delle burocrazie scolastiche, si spreme forse qualità mediante valutazioni neutre? Esiste confronto? Dialogo? Io non ho mai visto niente di attinente ad una effettiva valutazione, niente di simile ad alcuna forma di dialogo significativo, niente al di fuori dell’ossessiva protezione del proprio orto. Proprio per questo ho vissuto la rete come qualcosa che almeno mi dà la possibilità di incontrare coloro che sembrano lavorare nella stessa direzione, persone dalla cui esperienza posso attingere per migliorare le mie pratiche. Non credo che si possa trovare altro ma è già tanto, io ho imparato moltissimo dal lavoro degli altri in questi ultimi anni.

    Penso invece che una vera valutazione possa venire solo dalla materia su cui stai lavorando, nel caso dell’insegnamento, dai propri studenti. Quello che chiamo “zoccolo duro” nel mio corso, ovvero quell’insieme di studenti che rifiutano la proposta che facciamo loro, rappresenta il dissenso più netto, aprioristico. Quelli che recalcitrano di fronte ad alcune delle mie proposte rappresentano un’altra forma di critica. Le innumerevoli opinioni che esprimono, specialmente alla fine quando si chiede loro di tirare le somme, il grado di entusiasmo che mostrano per i nuovi mondi proposti loro, o il grado di indifferenza, la quota che vanno a cercare gli anni successivi. Ecco, sono queste le uniche riprove e l’unica bussola che possa avere un insegnante, per il lavoro degli anni successivi. 

  6. @ Andreas, sì. Probabilmente (anzi sicuramente) la situazione è questa. Altrettanto disarmante e reale è la tua costatazione ” nei recinti delle burocrazie scolastiche, si spreme forse qualità mediante valutazioni neutre? Esiste confronto? Dialogo?” No,non esiste: condivido.
    Nella realtà scolastica ci possono essere piccolissimi gruppi che dialogano, ma di verifica neutra non se ne sente l’aroma.
    Eppure esistono persone che si autoverificano; dico che esistono perché amo il frutto dell’esperienza; nella mia storia ne ho conosciute (rare e brave): sono quelle che si pongono il problema confrontandosi anche con se stessi con retta coscienza; erano quelle che di fronte a un insuccesso ragionavano dicendosi ” devo capire perché; ci dev’essere un altro modo”.

    A questo punto chiederei: se la realtà è quella naturalistica dei galli in libertà e dei galli nel recinto (metafora seria e sobria e che nulla sottrae alla dignità umana 🙂 ), se l’evidenza della comunicazione, anche su web, non è diversamente formulabile e se la realtà (compresa quella della recinzione della burocrazia scolastica) è quella delle relazioni animali (che, sottolineo, intendo in senso nobile) allora possiamo parlare di animali possibili scienziati?

    Tuttavia mi lascio un ostinato spiraglio: c’è la realtà, ma nell’uomo ci può essere anche la tensione verso un miglioramento: lasciatemi un margine di pensiero alla possibilità che un miglior modo di comunicare possa esistere. E non mi riferisco solo alla mediazione; ma alla costruzione comune.
    Io ci lavoro da sempre e forse qualche tenue ipotesi riesco a immaginarla.

  7. nel commento precedente a quello Andreas avevo concluso auspicando che si possa dialogare senza necessariamente darsi solo ragione (wow! perfetto! rubo! quoto, anzi straquoto!) te in quello seguente esprimendo la convinzione che una comunicazione migliore sia possibile.
    Nel frattempo… io continuerò a fare un sano esercizio che consiglio affettuosamente: quello di continuare a cantare sommessamente anche fuori dal coro e di lasciar scorrere, abbassando il volume, le parole dei comunicatori dogmatici e stentorei: credo che il mondo in generale e l’Italia in particolare abbia avuto già sufficienti danni dalla categoria dei gabrieldannunziani o di più ruspanti pertinaci seguaci del “son paròn mi”; a cui i romani hanno sempre risposto con pepata e saggia ironia (e ‘sti…) che possiamo anche non citare completamente per rispetto alla quieta e solare domenica che madre natura ci regala.

  8. allora possiamo parlare di animali possibili scienziati?
    Sì, tornando bambini. Recuperando naturalezza. Tutti gli animali, primariamente da giovani, ma non solo, sono curiosi e hanno una spinta alla scoperta. I bambini in sommo grado. Lo scienziato vero è molto bambino.

  9. Beh, sì: prendendo distanze dall’Accademia, senza rinunciare alla ricerca che diventa gioco, recuperando naturalezza. Tutte qualità che la scuola deve cominciare a rispettare per prima. O è forse vero che il gioco della sopraffazione e quello della difesa preventiva si imparano proprio a scuola? E se questo è vero come si può comunicare con naturalezza o ricercare con spontaneità difendendosi o attaccando a seconda del contesto?
    Sono tentata, e mi vien da allargare il discorso: come può un vero insegnante non imparare dall’errore? (il che è anche, indirettamente, nel Il Manifesto dell’insegnante)

  10. Il ricercatore (vero) e l’insegnante (vero) hanno uno strumento fondamentale in comune: l’errore. Ambedue sono consapevoli che l’errore è la risposta più chiara che il contesto (natura, apparecchiatura complessa, gruppo di studenti) può dare. La “realtà” – come in realtà stanno le cose che indago, quali sono i termini del vero in ciò che si pretende io spieghi a qualcuno, cosa sta in realtà accadendo nella sua testa, conseguentemente alle mie azioni – è un concetto elusivo, mai afferrabile e solo approssimabile per esclusione di errori, ipotesi errate, azioni errate, e si può sempre sgretolare, alla prima risposta negativa.

    Qualsiasi teoria scientifica evapora in presenza del primo controesempio, anche dopo mille verifiche positive. La vita in laboratorio o sui fogli di una dimostrazione matematica è un errare fra gli errori. Qualsiasi spiegazione (o altra azione didattica) può fallire completamente in un caso, anche dopo 1000 successi. Quando spieghi qualcosa a qualcuno, non solo uno studente, e se sei onesto, dovrai ammettere che è assai raro che tu abbia la sensazione che il tuo pensiero si sia trasferito indenne dall’altra parte – una pretesa già terribilmente semplicistica, di per se.

    Sopraffazione e difesa preventiva? Certo, e solo quello si impara a scuola, eccetto … eccetto che in quei particolari casi in cui capita un insegnante-ricercatore. Capita, ma di rado, due o tre volte per carriera scolastica.

    L’addestramento alla sopraffazione e alla difesa è mutuamente esclusivo con l’educazione all’esplorazione.

    Nel primo caso si spacciano verità da negoziare mediante rapporti di forza, nel secondo si impara a navigare l’oceano dell’incertezza alla ricerca di arcipelaghi di certezze.

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