Forse l’errore di fondo è mio, aspettarmi troppo dai convegni così detti scientifici. Mi spiego, o, almeno , ci provo.
E’ da tempo che non partecipo più, con mie presentazioni, ai diversi eventi “scientifici” che si tengono in giro per lo stivale non perchè non abbia cose “intelligenti” da presentare ma perchè non trovo una valida ragione per farlo.
E’ da tempo, e chi legge questo blog lo sa, che non ho parole dolci per quegli eventi: li trovo vuoti, privi di stimoli, palcosceni narcistici, giochi di potere.
Tempo fa, una persona che stimo tantissmo, un proto-ertico della nostra scienza, lette le mie critiche a Didamatica mi aveva invitato ad organizzare qualcosa in occasione di Didamatica Torino di quest’anno. Solo per la stima che nutrivo e nutro per la persona che mi avave fatto l’invito gli rispondo affermativamente e gli propongo una sessione per un riesame critico di tanti anni di usi didattici delle tecnologie, qualcosa, in piccolo, di una iniziativa che tengo sempre nel cassetto, il Processo alle tecnologie didattiche ( http://processoalletecnologiedidattiche.pbworks.com/w/page/18704868/Home). Non ho mai avuto una risposta sull’accettazione della mia proposta. Così va la vita! Solo pensiero convergente e collusivo!
Più o meno nello stesso periodo vengo invitato da altra persone che stimo professionalmente e che avevo conosciuto in occasione del MoodleMoot di Reggio Emilia a far parte del comitato scientifico del congresso SIEL di quest’anno, invito che accetto (precisando che da anni non sono più socio SIEL) per la stima e la simpatia per chi mi ha invitato.
Come membro del CS sono stato richiesto di revisionare alcuni dei contributi presentati, cosa che faccio usando, come è ovvio, i miei standard minimi di qualità. Nessuno paper entusiasmante, tre a dir poco indecenti, uno che non sono proprio riuscito a capire cosa l’autore volesse dire. Ho la sensazione che il livello scarso-mediocre dei contributi presentati che avevo rilevato io sia stato trovato anche da altri del CS. Sensazione che mi piacerebbe verificare.
Ultimo aneddoto prima di passare alle riflessioni.
Tempo fa una giovane collega (italiana) che lavora in una università inglese (25 anni e responsabile del sistema di tecnologie didattiche dell’ateneo, pagata sui 2500 euro/mese, contratto a tempo indeterminato) ha presentato un paper a Siel Milano e mi ha detto che la sua reazione dopo aver ascoltato tutte le presentazioni è stata “tutto qua?”. Il suo stupore era non tanto per la bassa qualità delle presentazioni ma per il fatto che gli organizzatori le avessero ammesse!
Mi domando, allora, è mai possibile che personaggi di vaglio come sono certamente quelli che siedono nei CS degli eventi e nei direttivi delle associazioni che li organizzano, vadano a pesca con una rete (di selezione) a maglie così larghe che passa tutto?
Possibile che non si accorgano che così facendo, accettando cani e porci (spesso, anzi sempre quando mi sono presentato, hanno accettato anche me) non fanno un buon servizio alla causa?
Ho il sospetto che se usassero i criteri che loro stessi vorrebbero applicare si troverebbero con quattro gatti a fare le presentazioni ed i loro prestigiosi eventi finirebbero come neve al sole.
Non mi interessa in questa occasione stigmatizzare la cultura collusiva che tiene in piedi questa associazioni (io vengo alla tua conferenza e te la legittimo, tu accetti il mio lavoro e mi legittimi) e la loro vera ragione d’essere.
Per ma la questione-madre è che la pochezza media delle presentazioni alle conferenze riflette la debolezza delle pratiche e che queste sono la conseguenza della cattiva “scuola” che il modo scientifico, accademico e formativo fanno.
Perchè, allora non comiciare ad “educare” un po’ attraverso con una maggior selettività delle presentazioni? Se non ci sono contributi degni di una conferenza nazionale, al limite, quella conferenza non si fa. Sai che scossone si darebbe al nostro tran tran se il presidente, diciamo di AICA, dicesse; signori, scusateci ma quest’anno Didamatica non si fa perchè ci vergognamo a mettere in programma i contributi che ci sono pervenuti!
Se un mio paper (oggettivamente indecente) viene accettato (perché altrimenti non si potrebbe fare il convegno o lo stesso non sarebbe tanto “ricco”), io sono portato a credere che il mio lavoro abbia un buon valore “scientifico” e sono confermato nella bontà del mio approccio. Se, invece, qualcuno, con la sua autorevolezza, mi dicesse: Marconato, il tuo lavoro fa pena, sul subito ci rimarrei male, ma riavutomi, inizierei a riflettere sul perché della valutazione e comincerei a mettere in discussione non solo il paper e l’attività cui si riferisce ma l’intero mio approccio a cominciare dai fondamentali.
Altra questione.
Fino ad ora ho parlato di presentazioni troppo spesso, eufemisticamente parlando, non adatte a conferenze scientifiche. Ciò non significa che le pratiche che vengono presentate siano intrinsecamente … indecenti.
Capiamoci: vogliamo fare tante “vetrine delle pratiche” (più o meno buone) o conferenze di valore scientifico?
Parecchie attività oggetto delle presentazioni da me incriminate sono apprezzabili perchè segnalano la buona volontà di chi la ha promosse (spesso tra mille difficoltà e bastoni tra le ruote messi da chi dovrebbe facilitare la pedalata), hanno elementi cui ispirarsi, hanno qualcosa da condividere. Sono pratiche da far conoscere. Sono pratiche che meritano un supporto perchè i loro autori spesso devono scontare l’ostilità anche dell’ambiente in cui operano ed un aiutino esterno non farebbe loro male.
Ma una cosa è mettere in mostra, altra è dare un contributo scientifico a partire da quelle pratiche. Troppo spesso i così detti convegni scentifici altro non sono che vetrine di pratiche, a volte di pratiche ripetitive, stantie. E di vetrine di pratiche ce ne sono fin troppe grazie anche alla rete.
Concludo:
- chiariamoci su cosa vogliamo siano questi convegni/conferenze
- troviamo il modo di far davvero crecere questo settore
- smettiamola con pratiche collusive
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Immagine www.mariedargent.com
Vetrine & vetrini 🙂
Proprio vero, Gianni; “Solo pensiero convergente e collusivo!”. Concordo anche sul fatto che un conto è dare parola e, se vogliamo, onesta visibilità, altro è dare un contributo scientifico.
Direi, ma propongo la questione anche per ragionare, che abbiamo assistito alla nascita di una modalità di raccolta del consenso-facile-veloce che ha il suo veicolo anche nei media, nella pubblicità ecc e che questa modalità è stata negli anni settanta-ottanta analizzata e anche messa a nudo svelandone anche la grossolana volgarità ma poi, invece, è diventata modello. Ora si va per, come dici tu, “collusione e convergenza” e lo si fa a qualsiasi prezzo. Anche, mi sembra di poter dire, con una certa, atipica, violenza; e pur sempre di collusione antidemocratica e antiscientifica si tratta.
Maria Serena hai, purtroppo, ragione ad estendere la cultura della convergenza e della collusione a tanti altri campi dell’agire umano e sul consenso facile&veloce!
Pienamente d’accordo, Gianni. Vorrei aggiungere che con il principio di “legittimazione” che hai sottolineato, si sta anche amplificando l’eccessiva autoreferenzialità di ogni singola pratica. Sono tutte davvero “buone” pratiche??
Elisabetta, sulla questione “buone” pratiche. Scontata la parte di soggettività insita in ogni giudizio/valutazione, vedo essrci pratiche:
– innovative
– ripetitive
– fondate su solida riflessione e concettualizzazione
– deboli e casuali
Ci sono le pratiche solide agite da insegnanti esperti che vanno in “automatico” avendo interiorizzato, metabolizzato i fondamentali.
Ci sono pratiche da novizio in cui la teoria viene applicata alla lettera e papagallescamente.
Ci sono pratiche fondate sulla competenza e pratiche fondate sulla buona volontà (ma anche pratiche di competenza e buona volontà). E la buona volontà non basta anche se troppo spesso della buona voltà i fa un criterio assoluto di qualità.
Insomma, e per farla breve, non basta fare e/o dire di avere fatto. Bisognerebbe domandarsi cosa uno/a ha fatto.
L’accettazione indiscriminate di paper ai diversi congressi non facilita di certo la qualificazione delle pratiche. Anche se la loro qualità non dipende solo da questo fattore. Ad esempio, sarebbe da interrogarsi sul cosa si insegna (alle università, ad esempio) e come lo si insegna.
Cominciamo con lo spezzare il cerchio collusivo, poi si vedrà
Anche io concordo che la buona volontà è apprezzabile ma non basta. Il criterio scientifico richiede l’umiltà di sottoporre i propri risultati a varie verifiche; questo in campo educativo/scolastico non è facile, ma non è detto che ciò che è complicato si possa ignorare.