Mi sono posto questa domanda al termine di una riflessione sollecitatami da Maria Teresa Bianchi, la mitica MTB di Blog Didattici che ben 9 anni fa, pionieristicamente e visionariamente, mise in piedi.
Un portale di raccolta dei tanti blog didattici che all’epoca si stavano sviluppando soprattutto nella scuola primaria ad opera di valorose maestre come Teresa Catalini, Maria Luisa Necchi, Leila Moreschi, o di insegnanti delle medie come Carla Astolfi, per fare i primi nomi che mi vengono (non a caso) in mente.
Pensavo al fascino, ma anche alla fatica del fare blogging didattico ìn classe con i propri studenti. Tanto lavoro, ben programmato e ben realizzato. Con intelligenza, con fatica. A costruire riga dopo riga, post dopo post. A dare un senso didattico ad ogni ora dedicata in classe (ma ancor di più a casa) per costruire dal nulla qualcosa di significativo.
Pensavo, anche, alle soddisfazioni quando i risultati cominciavano ad arrivare, con iniziative come “libri sotto l’ombrellone” o “Il grande libro della pace”, progetti di collaborazione tra scuole basati sul blog didattico.
Pensavo a tutte queste cose ed al lavoro da autentiche artigiane della didattica e mi sono scoperto a pensarne con nostalgia, come si trattasse di un bel tempo andato, e mi sono chiesto il perché di questo sentimento.
Ed ho presto capito che stavo confrontando quel lavoro fatto pazientemente a mano con i lustrini delle App e dei programmi preconfezionati per i tablet e le lim.
Basta un click e la macchina fa tutto da sè, con poca fatica, con poco pensiero. E con poco apprendimento.
« Basta un click e la macchina fa tutto da sè, con poca fatica, con poco pensiero. E con poco apprendimento»
Quindi la tecnologia ha un senso se comporta sudore e fatica?
Non viene presa in considerazione la possibilità che le energie e il tempo risparmiato “grazie ad un click” possono essere impiegati per lavorare più a lungo e approfonditamente sui contenuti?
Darò un giudizio, sapendo che sarà poco apprezzato: trovo la conclusione del ragionamento un po’ superficiale.
Alessandro, “giudizio” più che apprezzato, non perché lo condivida, ovviamente, anzi lo rigetto con decisione, ma perché mi consente una precisazione. Gli strumenti sono strumenti e come tali vanno trattati. Di ogni strumento si può fare un buon uso come un pessimo uso.
Ci sono strumenti tecnologici da usate a scuola che si prestano ad usi poveri (per quanto riguarda la filiera dell’apprendimento) richiedendo atteggiamenti e comportamenti passivi per il pensiero (che non dimentichiamolo è il più importante carburante per l’apprendimento). E tra questi di certo le lim ed i tablet con le loro app e giochetti (che nulla hanno a che vedere con i così detti serious games.
Ovvio che gli usi poveri sono quelli fatti da insegnanti che, indipendentemente dalle tecnologie, fanno già una didattica povera. E tra questi non pochi tecno-entusiasti della prima come dell’ultima ora.
Gli usi ricchi sono quelli fatti da chi fa già una didattica ricca e sa come asservire ai suoi scopi didattici lo strumento.
C’è il forte rischio che certi usi di certe tecnologie portino al degrado della didattica. Lo ribadisco, non come principio astratto, ma perché lo ho visto.
Quando si parte dallo strumento, soprattutto se hardware, si finisce inevitabilmente per cercare, e trovare, uno scopo didattico per giustificare l’uso dello strumento. Una risposta alla ricerca di una domanda; una soluzione alla ricerca di un problema. Cioè poca attenzione alla domanda ed al problema.
Didatticamente, trovo maggiormente significativi i software (certi software) che gli hardware. Il senso del post sta in questo
l’esperienza in tutti questi anni ha proseguito il suo cammino