Non so se mi irriti (eufemismo) di più il sensazionalismo di certi giornalisti che con titoli ad effetto stravolgono il senso di ciò di cui scrivono, o certi ricercatori che erigono a verità ed assolutizzano piccole scoperte.
La scintilla questa volta è scattata leggendo un articolo su Repubblica di oggi (1) in cui si citano le sensazionali scoperte di scienziati (USA, ovviamente) secondo i quali:
( le tecnologie) creano realtà alternative immaginarie e convincenti e noi perdiamo per strada le nostre capacità più avanzate: quelle empatiche e relazionali. Tra i ricercatori è scattato l’allarme.
Il tutto a seguito di
un esperimento rivelatore degli effetti diretti dell’intelligenza artificiale sui nostri circuiti cerebrali … su settanta soggetti
Attenzione: 1 esperimento, 70 soggetti per sentenziare che …
le macchine cambiano i cervelli
e che …
l’esperimento mostra i danni dell’eccesso di tecnologia
Ho ragione di credere che il lavoro di ricerca sia decisamente meno approssimativo della (pessima ed oscura) sintesi che il giornalista (Paolo G. Brera) ne fa e che le conclusioni del giornalista siano la solita forzatura sensazionalista di tanta stampa (anche di quella che, ahimè, seguo quotidianamente) rispetto a questioni poste in modo pacato, magari non apocalittico, provvisorio, interlocutorio.
Diamo, però, per un momento credito ai risultati dei ricercatori ed assumiamo che questi abbiano davvero identificato dei comportamenti determinati dalla tecnologia.
Assumiamo, anche, che un dato ricavato da un esperimento fatto in laboratorio con 70 soggetti abbia valore di “verità”, cioè che ci troviamo di fronte ad un’evidenza che potremo osservare ogniqualvolta si ripeta quel esperimento, in ogni altro contesto o cultura e con le persone più disparate.
Tutto ciò premesso, ammesso (e non concesso), sulla base di quale criterio si definisce quel comportamento un “danno”? Cioè qualcosa di negativo e che crea problemi alle persone coinvolte, a quelle che stanno loro vicino, che ne limita le performance individuali e sociali ….
Parlare di “danno” significa assumere una prospettiva valoriale, non scientifica. Nulla di male assumere prospettive soggettive, anzi! Basta che sia chiaro.
Danno vs. Cambiamento
Perchè invece che parlare di “danno”, non si parla di “cambiamento”?
Parlare di “danno” in questo contesto vuol dire aver rilevato l’assenza di qualcosa di positivo/utile che prima c’era. Al presente manca qualcosa (come la perdita della capacità di scrivere a mano per l’eccessivo uso della tastiera).
E se vedessimo quello che ora si genera, anche con le tecnologie, non come qualcosa che manca ma come qualcosa di nuovo e che prima non c’era? Qualcosa che ha sostituito la precedente, anche perdendo qualcosa (vuoi mettere un foglio riempito di bella calligrafia?) ma acquistando altro?
Misurare ciò che avviene nella nostra epoca tecnologico-digitale con il metro di quella pre-digitale significa impedirci di cogliere il nuovo e la bellezza del nuovo. E piangere per un passato che non c’è più.
(1) http://www.ufficiostampa.rai.it/aree/rainet/net_odierna.pdf
Ciao Gianni, e buon 2013!
Mi piace il tuo riferimento alla calligrafia, tema prediletto della mia maestra elementare (primi anni ’60) e gia’ divenuto obsoleto alle medie…
Tuttora tra le popolazioni dell’estremo oriente, Cina e Giappone, mi risulta che la calligrafia sia un valore, una vera arte, di cui in Occidente abbiamo ormai perso il significato.
Se poi a questo corrisponda anche la perdita di neuroni o sinapsi, non lo so e non mi importa saperlo, ma forse qualche scienziato ha voglia di occuparsene ???
Gabriella
Ciao Gabriella e buon anno anche a te.
Ho il sospetto che qualche “scienziato”, per i suoi 15 minuti di gloria, avrà di certo voglia di occuparsene.
Se non ricordo male anche ai tempi di Gutenberg taluni ebbero il timore di perdere la capacità di scrivere a mano.