Pirrozzimaggio

Primo: forse, più che “falso”si potrebbe dire “sedicente” innovatore.

Secondo: devo dichiarare il mio “amore” intellettuale  per Salvatore Pirrozzi, un (insegnante) intellettuale dotato di grande senso dell’ironia Un pensatore gaudente che così stempera la pallosa serietà dell’intellettualetuttod’unpezzo. Pagato questo debito affettivo, veniamo al dunque, all’oggetto che ha scatenato questo mio outing.

Salvatore in una serie di commenti in Facebook ad un mio recente post solleva una questione importante per capire cosa succede a scuola, fatti troppo spesso coperti per collusione che sfocia in omertà: la presenza di “bande” di insegnanti che si accaparrano i finanziamenti dei progetti, aumentando di non poco le normali entrate, progetti che, oltretutto, sono di dubbia innovazione. O di auto dichiarata innovazione.

… esperienze dirette di questi ultimi mesi mi confermano vecchie sensazioni: la presenza di bande, spesso autodefinitesi di “innnovatori” (non conservatori, quindi, né menefreghisti, con lo stigma autocostruito dell’impegnato, del devo fare tutto io ecc ecc. Perchè e in che senso “banda”? mettiamo da parte l’eventuale malafede, che ci depisterebbe e non mi sentirei di accettare come interpretazione. Il fatto è che se vai nelle scuole, spesso è sempre lo stesso gruppo di docenti che, attraverso il meccanismo dei punteggi accumulati in progetti precedenti, affluisce nella gestione della pioggia progettuale che cade sulla scuola, con la sua componente di soldini, miseri quanto volete ma che possono innalzare del 50% il reddito medio di un insegnante (ma anche del personale non tale). Si badi che ci si appropria – non ne faccio una legge, ma una mia personale constatazione diffusa – di progetti di innovazione, che vengono gestiti dentro le vecchie cornici cognitive degli innovatori della scuola, che, loro davvero, impedisce qualunque alito di sperimentazione e di apprendimento. Un corpo immobile che auto-riproduce se stesso e, non sembri esagerato, il proprio potere, fosse anche solo quello della immagine dell’impegnato innovatore.

Salvatore mette in evidenza che Il vero problema non è il soldo che entra nelle tasche di questi innovatori-accaparratori, ma la natura di innovazione di questa loro azione, azione che non innova la vera dimensione di una innovazione stabile: l’innovazione dell’organizzazione della scuola:

Ma, ciò detto… questo è un fenomeno, ma non la causa principale dell’immobilismo anche della frenesia. Si continua, insomma, a puntare su fattori individuali: la coscienza, la preparazione, il merito, l’attitudine…laddove il problema è l’innovazione organizzativa. Per evitare di consegnare al cimitero delle formule questa espressione, e per provare a consegnarla a un territorio riflessivo (dove cioè le domande presuppongono la ricerca di risposte e queste non sono già scritte precedendo le domande) si tratta di IMPORRE una serie di configurazioni professionali e organizzative destinate alla riflessione corale di quel che si fa, alla riflessione e all’apprendimento sul e del proprio mestiere. Lo so, ci sono: consigli, dipartimenti ecc ecc….

I processi di innovazione non si attivano perché il funzionamento interno della scuola, la gestione quotidiana delle sue attività non si concentra sui meccanismi dell’innovazione: la documentazione, la riflessione, la sistematizzazione, il riferirsi a solide concettualizzazioni e non ad improvvisazioni ed a sentimenti:

….. ma sarebbe importante una ricognizione dei loro materiali per piangere o ridere; si tratta di IMPORRE – dentro questi setting – una serie di artefatti che possano essere pratiche e protesi riflessive: chi fa mai un protocollo di osservazione? chi fa mai un verbale come dio comanda? chi propone mai una bibliografia, e una sitografia minima per costruire frame comuni? Chi si vede mai per discutere coralmente sul percorso fatto? Chi fa mai una programmazione che non sia una risciacquatura di frasi fatte? Chi propone una autovalutazione su se stessi?

La drammatica questione non può, secondo Salvatore, essere affrontata sul piano individuale e della buona volontà, ma deve incardinarsi sul piano istituzionale, organizzativo:

Ora, tutto ciò non può essere affidato all’iniziativa individuale, alla classica buona volontà: questa è una doverosa indicazione istituzionale che definisca la strada per una ridefinizione del mestiere del docente.

Amara la conclusione dell’ottimo Pirrozzi che vede destinate al fallimento anche le lodevoli innovazioni introdotte in un programma (F3, per il contrasto della dispersione) perché i meccanismi reali di funzionamento delle scuole (meccanismi straordinariamente umani) prenderanno il sopravvento sulle lungimiranti visioni del legislatore

L’impianto degli F3, l’ultima famiglia progettuale contro la dispersione, per esempio, nelle sue linee guida dice un po’ dappertutto: il primo risultato è l’innovazione organizzativa del sistema scuola e suggerisce anche pratiche e artefatti, nuovi istituti di regia ecc. Spero che prima o poi se ne faccia, di queste innovazioni, un censimento. Temo che scopriremo che il risultato più grosso è stato quello di rinforzare l’anarchia feudale dei piccoli sistemi di potere intorno alle scuole, omaggio al signore, spartizione delle terre fino all’ultimo signorotto, carte messe a posto, messe a postumo, a volontà, belle parole innovative che avranno trent’anni di insuccessi alle spalle.

Nello sconsolante panorama della mediocrità organizzativa e didattica, qualcosa si salva. Qualcosa di buono si riesce a fare quando si fa scuola andando oltre la scuola (una formuletta che ultimamente mi trovo ad usare):

…  non si parla mai abbastanza delle pratiche, non dei discorsi sulle pratiche. Ma ho la sensazione che … le buone pratiche scolastiche, che si rifanno alle buone ipotesi sull’apprendimento, sono buone proprio perché: a) tradiscono le congiurazioni scolastiche, ossia si fa buon apprendimento laddove ci si muove abbastanza fuori dagli schemi e dalle strutture dell’istituzione scuola otto-novecentesca; b) proprio in quanto tali, sono irriducibili a una sola famiglia, mi appaiono, giustamente, polimorfe, forse perché così deve esser oggi un’istituzione dedita all’apprendimento.

Allergico alle soluzioni sul piano individuale, Salvatore conclude evidenziando i piani su cui agire per sperare in una (forse) nuova scuola:

ancora il discorso sfocia sui singoli, evita la questione di quali debbano essere le configurazioni organizzative, pedagogiche, didattiche e gli statuti professionali dei docenti (e dirigenti), di una nuova scuola, se ancora la volete chiamar così.

La testimonianza (le bande dell’innovazione che imperversano nelle scuola) e le riflessioni (la dimensione organizzativa e non individuale) dell’innovazione) di Salvatore ci dicono di quanto sia difficile innovare a scuola e di come tante “innovazioni” siano solo apparenti perché non cambiano nulla se non, forse, nel breve periodo.

 

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