sapee
Tradizionalmente la conoscenza didattica che si usa a scuola è stata influenzata e  determinata (secondo me in modo più apparente che reale) dall’università.  Nel bene e nel male le pratiche didattiche sono state orientate dalla conoscenza che veniva prodottoanel mondo accademico.


Gli insegnanti studiavano qualche pubblicazione di didattica scritta da qualche professore o ricercatore universitario, utilizzavano libri di testo, alcuni pregevoli ed utili, per la didattica disciplinare. La formazione degli insegnanti era appannaggio esclusivo di chiunque potesse fregiarsi l’attribuzione “università di …”. Insomma, le voci più ascoltate a scuola sono sempre state di provenienza accademica.

Ora il vento sta cambiando e sempre più spesso la scuola stessa sta diventando protagonista del proprio sapere. Segnali deboli, certo, ma di una certa costanza.

Sempre più spesso le innovazioni che si vedono a scuola, pur deboli, circoscritte, ingenue e narcisistiche, più urlate che solide, vengono dalla scuola stessa: da dirigenti coraggiosi, da insegnanti audaci, da personale della scuola che osa, rischia e qualcosa cambia. Da persone che stando dentro la scuola sono guidate da visioni che hanno il senso del concreto, del reale. E che incidono.

In questo modo a scuola si vedono sempre più spesso dei cambiamenti che traggono origine al proprio interno e che contengono un buon sapere pratico che viene prodotto attraverso sperimentazione quotidiana e che si affina e si sviluppa nel confronto tra operatori, confronto che è reso possibile dalla facilità di comunicazione offerta dai social media.

Sono proprio i social media che costituiscono la vera e propria infrastruttura che rende possibile la disseminazione di informazioni su ciò che sta accadendo all’interno della scuola, che rende visibile la grande quantità di sapere pratico che la scuola produce, che contribuisce alla diffusione e all’ulteriore sviluppo di questo sapere.

Una infrastruttura che contribuisce come mai prima a sviluppare identità e conoscenza.

Dicevo in precedenza che l’influenza universitaria è stata ed è più apparente che reale perché anche i grandi pedagogisti del passato tranne, forse, i primi istruzionisti, hanno lasciato il segno nelle pratiche reali delle scuole dei primi cicli (Piaget, ad esempio), mentre tutta la scuola secondaria è toccata solo marginalmente ed in circoscritte enclave, da didattiche di impronta costruttivista, nel cui solco si sono prodotte le scoperte più significative degli ultimi decenni sull’apprendimento e sulla cognizione.

La gran mole di sapere teorico prodotto in ambito accademico ha avuto un impatto molto limitato sulle pratiche didattiche (tanto che sono sostanzialmente ferme allo stato dell’arte di inizio secolo scorso)  non tanto per il suo valore intrinseco (che scadente non è; non è questa la questione) o per le, supposte, resistenze ed il conservatorismo della scuola e degli insegnanti, quanto proprio per la sua natura di sapere “scientifico” (teorico) che va ad impattare in quella che Diana Laurillard chiama “professione empirica”, cioè una professione che si nutre e si evolve solo grazie alla condivisione, all’effetto cumulativo di pratiche sperimentate, riflettute, condivise e non attraverso iniezioni di teorie. L’insegnamento non è una scienza teorica, non è, cioè,  concettualizzabile secondo teorie e spiegazioni e, soprattutto non deriva direttamente le proprie pratiche  dalle teorie dell’apprendimento.

La scuola e l’insegnamento come il primato del sapere pratico sul sapere teorico.

Adesso questa evidenza viene a galla e la scuola e gli insegnanti ne sono sempre più consapevoli e protagonisti.

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