L’insegnamento è una pratica che si costruisce e si arricchisce secondo due dimensioni, una sociale e una personale.
La dimensione sociale è quella del miglioramento incrementale, della costruzione sul lavoro di altri: si osserva cosa fanno altri colleghi, si riproducono quelle pratiche (traendone ispirazione più che copiando), si migliorano, si restituiscono, arricchite, alla comunità.
La dimensione individuale è quella della riflessione sul lavoro che si sta facendo o che si è fatto: cosa è andato bene, cosa no, perché, cosa migliorare, come. La riflessione, processo di pensiero individuale, viene resa più efficace quando ha anche dei momenti “sociali”.
La “socialità” di una scuola ha un impatto importante sul suo buon funzionamento, sulla sua qualità reale e percepita.
Qual è, mediamente, la socialità nelle scuole?
Giro parecchio nelle scuole, parlo con dirigenti e insegnanti, raccolgo confidenze (anche da macchinetta del caffè) da parte di tutti, ho interazioni formali e ufficiali, vedo le scuole nel loro funzionamento ordinario e reale, frequento anche la scuola in Facebook (reale quanto quella di mattoni) ed ho la percezione di una socialità che mediamente è più debole che solida, più friabile che compatta, più incerta che sicura ma anche, raramente, proprio malata.
Da quel che vedo e sento raccontare anche in Facebook, non mi pare che gli insegnanti all’interno della propria scuola siano coesi, che agiscano come un sol corpo: tensioni e conflitti più o meno latenti sono all’ordine del giorno. Si va dalle “serpi che strisciano nell’erba e ti prendono alle caviglie”, alla disistima professionale incrociata, a gruppi contrapposti frutto del divide et impera del dirigente ( il cerchio magico esiste in alcune scuole), all’andare a briglia sciolta, ognuno per sé per mancanza di collante, per mancanza di un progetto condiviso, di un progetto alla cui formulazione tutti abbiano potuto contribuire.
Ecco, allora, che nella connotazioni di colleghi abbiamo l’insegnante del 27, l’insegnante casalinga, l’insegnante che si crede dio perchè è anche formatore o usa le tecnologie. Ad onor del vero, vedo, anche, insegnanti che offrono e cercano collaborazione e che, ben che vada, ottengono indifferenza.
Tutte forme di micro socialità scolastica che impediscono quella vera collaborazione che è alla base del buon funzionamento di una scuola.
In contesti simili a nulla serve premiare il migliore o avere un gruppetto leader per “ispirare” o “contaminare” i riottosi: questo approccio favorirebbe la divisione e il conflitto. La strada da percorrere è, piuttosto, quella ricerca della coesione, della collaborazione, della costruzione di un sentir comune.
A nulla servono gesti d’autorità. La tentazione autoritaria è forte perché dà l’illusione di risolvere rapidamente il problema. Il problema, forse, si risolve nel breve periodo ma presto si ripresenterà.
Insegnare non è applicare procedure standardizzate ma risolvere continuamente e creativament dei problemi di didattica.
La didattica non cambia per decreto. Le regole che si rispettano sono quelle che si è contribuito a costruire.
Perché in tante scuole del primo ciclo le Indicazioni nazionali non sono conosciute o disattese? Perché assai spesso il curricolo di Istituto è un mero atto amministrativo e non una base culturale e professionale di una comunità scolastica? Perché la certificazione delle competenze in esito all’obbligo di istruzione è quasi ovunque fatta traducendo i voti di materia?
Ogni vero cambiamento inizia con la sfida delle proprie teorie implicite e con la ricerca di posizioni concettuali e operative più avanzate. Ogni vero cambiamento è un’azione di sviluppo organizzativo, non di normazione.
Una scuola migliora se si lavora con il gruppo, non con i singoli. Creare un gruppo che condivida, non dico una visione di scuola, ma un percorso operativo di medio periodo è essenziale per un’azione determinata ed efficace.
Per costruire questo è essenziale il ruolo (formale) e la figura (sostanziale) del dirigente. È importante la sua competenza tecnica e la sua autorevolezza. È importante la sua capacità di fare gruppo, di ispirare, di sostenere, di valorizzare. È importante la sua capacità di essere “giusto”. È importante la sua capacità di valorizzare le risorse piuttosto che perseguire l’adesione al suo pensiero, alla sua visione. Una scuola ha successo se si riesce a costruire un pensiero condiviso, un progetto condiviso, al successo del quale tutti abbiano voglia di lavorare.
Questo non è facile, richiede tanto tempo, un lavoro certosino. Essere”capo” vero si conquista sul campo e non si ottiene per decreto.