Quarta puntata della saga sull’apprendimento.
La vera questione è che quando parliamo di apprendimento abbiamo a disposizione due significati, l’apprendimento che conta a scuola e l’appuntamento che conta nella vita. L’apprendimento che conta a scuola conta poco nella vita, l’apprendimento che conta a scuola rappresenta un notevole spreco di risorse. Vediamo il perché.
In chiusura della puntata precedente ho detto che le didattiche attuali e di tipo trasmissivo sono derivate dagli studi fatti in laboratorio sull’apprendimento animale.
In questi ultimi decenni gli scienziati sono usciti dai loro laboratori e hanno cominciato a studiare le persone nella vita reale e come affrontano i compiti di apprendimento, cioè cosa fanno quando devono imparare qualcosa che non sanno o che non sanno fare o che hanno voglia o devono imparare.
Cosa hanno scoperto?
La cosa più importante, perché è la chiave che mette in moto tutto il processo, è che noi esseri umani impariamo per fare qualcosa con ciò che abbiamo imparato. Non impariamo per memorizzare e ripetere, questo succede solo a scuola, non nella vita reale.
A ben guardare non è una scoperta tanto recente o una verità ben nascosta, basta guardare i bambini piccoli. Perché imparano a parlare o a camminare? Per ricevere una caramella dalla mamma? No, imparano perché così sono più liberi, possono meglio soddisfare i propri bisogni, possono far parte del mondo dei grandi. Crescendo hanno una naturale voglia di imparare perché conoscendo possono entrare nel mondo e appropriarsi del mondo.
L’apprendimento è naturalmente guidato da uno scopo, uno scopo che è ritenuto rilevante per la persona che deve fare il lavoro e la fatica di imparare.
Avere uno scopo vuol dire percepire una possibilità d’uso di quanto si impara, vuol dire riuscire a dare un significato personale alle nuove conoscenze con cui si viene a contatto.
Quando una persona nella vita si avvicina a una nuova conoscenza lo fa spinta da un bisogno intrinseco tanto che se non ci fosse un bisogno percepito come tale non ci si avvicinerebbe a quella conoscenza.
Una persona si avvicina a nuova conoscenza quando percepisce una lacuna da colmare, la necessità di possedere degli strumenti (anche le conoscenze sono strumenti) che non ha e che gli servono per svolgere un’attività, risolvere un problema, vincere una sfida.
Questa è la molla della conoscenza, non un voto da prendere per far contenti insegnanti e genitori.
Quando non viene percepita alcuna sfida, nessun obiettivo da raggiungere, non si fa alcuna fatica per imparare.
A scuola si “impara” di sicuro, ma ci si accontenta troppo spesso di un apprendimento superficiale, un apprendimento ottenuto senza partecipazione (perché il compito assegnato non ha senso), con scarso impegno cognitivo ed emotivo, un apprendimento che porta a dare le risposte più o meno corrette dopo un numero maggiore o minore di prove, ma che svanisce a breve, evapora, come tutte le acque superficiali.
Quanti apprendimenti di questo tipo persistono a lungo? Quanti di questi apprendimenti sono riutilizzati nel tempo? Quanti sono riconosciuti rilevanti per essere messi in correlazione con altri? Nessuno. Salvo che incidentalmente qualcosa abbia un significato per lo studente.
La bassa qualità dell’apprendimento scolastico è testimoniata anche dalla necessità di richiamare alla memoria attraverso nuovo studio (il “ripasso”) le vecchie conoscenze in occasione di verifiche ed esami, ma anche queste spariranno a breve.
Tutto questo succede perché non si è mai imparato veramente, non si è mai imparato in modo significativo, le nuove conoscenze non sono collegate in modo stabile con quelle precedenti e non entrano a far parte della struttura cognitiva dello studente: se una nuova conoscenza (sarebbe più corretto chiamarla “informazione”) non acquisisce significato per chi impara (non riesce, cioè, ad agganciarla con qualcosa che già sa) non sarà mai imparata veramente.
Dovremo, quindi, prima di tutto decidere quale tipo di apprendimento vogliamo perseguire con il nostro insegnamento: un apprendimento superficiale e meccanico, una memorizzazione per il breve periodo o un apprendimento solido e significativo, un apprendimento che si potrà usare in futuro.
Da David Jonassen
I vostri studenti potranno imparare ciò che voi volete ma in futuro ricorderanno e useranno solo ciò che per loro ha un significato
Quando parliamo di “utilità” percepita di un insieme di conoscenze intendiamo dire che la conoscenza in oggetto sia riconosciuta da chi apprende come uno strumento utile a svolgere un’attività o risolvere un problema che abbia un significato per la persona che impara.
La questione del “significato” è ampiamente dibattuta in letteratura (consiglio la lettura dell’ottimo libro di Bruner “La ricerca del significato”) ma come estrema semplificazione possiamo dire che per avere significato, un oggetto (anche di conoscenza) deve poter essere collegato a qualcosa che già si conosce, che per noi ha già un significato: un’idea, un concetto, un valore, un un’emozione, un bisogno non necessariamente materiale.
È questo già noto che dà significato al nuovo.
Non a caso Ausubel, il “padre” dell’apprendimento significativo disse:
Se dovessi condensare in un unico principio l’intera psicologia dell’educazione direi che il singolo fattore più importante che influenza l’apprendimento sono le conoscenze che lo studente già possiede. Accertatele e comportatevi in conformità nel vostro insegnamento, D.P. Ausubel, 1968
Nel prossimo post svilupperò alcune implicazioni per la didattica.