Pinto

Complice il riposo di ferragosto ho completato la lettura dell’ottimo libretto (poche pagine ma dense, densissime) di Valeria Pinto “Valutare e punire” dove, tra i tanti temi che mi hanno stimolato evidenzio quello del tranello dell’inevitabilità della valutazione: con un continuo batti e ribatti su questo tasto e portando argomentazioni ed esempi del tutto estranei come contesto e come sue modalità complessive di funzionamento, è stata fatta passare l’idea che anche a scuola valutare sia un processo presente nell’ordine delle cose. Chi vi si oppone vuole, in questa prospettiva, sottrarsi a pratiche tanto ovvie quanto necessarie, si rivela un oppositore irragionevole e in difesa di privilegi spesso inconfessabili. Il risultato è che chi non si vuol far valutare si deve sentire in colpa.

Nulla di più falso.

Con analisi articolate che vanno dalla filosofia alla sociologia all’economia, l’autrice giunge alla conclusione che la valutazione non è un processo per niente scontato e pertanto ovvio ma profondamente ideologico e rappresentativo di una precisa logica concepita nella prospettiva della punizione delle difformità che un soggetto manifesta rispetto alla linea stabilita dal potere.

 

Ora un paio di mie riflessioni stimolate da questa lettura e contestualizzata su un tema sempre più aperto (e controverso) nella scuola contemporanea.

Prima: si parla di valutazione come se questa pratica fosse una pratica “naturale” nella scuola quando invece di “naturale” non ha nulla essendo rappresentativa di una ben precisa ideologia che vede la scuola come strumento di omologazione culturale e di pensiero alle esigenze del potere e, nella fattispecie, contigua alla logica economica liberista che, organizzativamente ha bisogno di una catena di comando affidabile e per questo corta e dotata di strumenti altrettanto affidabili e semplici e come strumento principe la valutazione.

Secondo: a chi accetta o si adegua alla valutazione conviene domandarsi cosa viene valutato e perché viene valutato.

Il “cosa” è essenziale per avere chiari i criteri che determinano per il valutatore (cioè il potere attraverso i suoi emissari operativi come l’OCSE, l’invalsi, i dirigenti, ad esempio) il valore e il valere del valutato. Molto spesso sono criteri di adesione alle richieste formalmente formulate dall’istanza di potere superiore e non riferite allo scopo del servizio reso.

Il “perché” cioè l’impatto dei risultati della valutazione, rappresenta il premio (o la punizione) attribuito al valutato per il suo allineamento o disallineamento alle richieste del potere. Di solito il premio rappresenta un valore nel sistema culturale, sociale e operativo in cui si esercita la valutazione, rappresenta e certifica l’appartenenza della persona a quel sistema, testimonia la sua omologazione, il suo appartenere a pieno titolo al sistema. O di starne ai margini.

La valutazione, anche degli insegnanti, altro non è che la più raffinata forma in cui si esercita il controllo politico, culturale e sociale sulle persone che operano in un sistema.

Ad alcuni può andar bene questo significato, ad altri meno. Infatti c’è chi aderisce entusiasticamente (o per calcolo) e vi si oppone. Tanti i primi, pochi i secondi.

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