Gianfranco Marini, uno che linka senza però fare linkiate ( geniale definizione di Francesca) ma fa un’eccellente content curation), rilancia un mio post sull’apprendimento significativo formulando alcune riflessioni sulle quali vale la pena soffermarsi perché tocca alcune delle principali criticità del “costruttivismo” agito.

Copio le questioni poste da Gianfranco e dico la mia augurandomi che la conversazione continui e, magari, si apra anche ad altri.

….. sono sovrastato da immani dubbi, non tanto su quanto tu sostieni e vai argomentando da tanto tempo (su cui concordo), ma su certe semplicistiche e dogmatiche “riduzioni” delle tesi tue (e di Ausubel e di Jonassen o anche dell’attivismo di Dewey) che sembrano centrare la didattica esclusivamente sul discente e derivare una teoria dell’insegnamento dalle pratiche di apprendimento (ovvio che le cose siano collegate) quasi sopprimendo ruolo e peso dell’insegnante e del sapere (e anche del saper fare).

Perciò ti incollo il mio commento al tuo post (che ribadisco non è tanto diretto contro quanto tu sostieni, ma contro il semplificazionismo dogmatico e miracolistico con cui certe tesi vengono da molti recepite e fatte proprie). Che ne pensi? Voglio dire esiste questo pericolo che io avverto? È vero che la didattica è un triangolo e non si può eliminare un vertice (l’insegnante o il sapere / saper fare) senza spiaccicare il triangolo riducendolo a una informe frittella?

 

Come spesso accade nella didattica agita, stanchi, insoddisfatti, frustrati dalle difficoltà di insegnamento e di apprendimento che sperimentano quotidianamente, tanti insegnanti cercano di cambiare, cercano qualcosa di nuovo ma lo fanno, spesso, con attese miracolistiche. Si cercano ricette, magari semplici, facili, si cercano soluzioni da applicare meccanicamente, senza riflessione, senza comprensione e così ci si avvia ad applicazioni deboli, ingenue, inefficaci.

Non sono le teorie o le strategia dell’apprendimento ad essere inefficaci o non utilizzabili nella didattica quotidiana ma la loro comprensione, la loro contestualizzazione, la loro non integrazione nelle pratiche abituali del docente.

Questo può succedere perché l’insegnate ha una didattica empirica e perché potrebbe mancare degli strumenti per capire e agire e, per questo, fa solo quello che può fare (cioè una didattica meccanica).

Non si esce da questo circolo vizioso imbottendosi di teorie. Le teorie non si applicano ma si usano.

L’insegnamento non è applicazione di procedure ma è un processo di problem solving; l’insegnante non è amministrativo dell’apprendimento ma è un problem solver. E spesso l’insegnante non è formato (nell’istruzione formale) e non si forma (in quella informale) come un problem solver.

Se la situazione didattica è data da una relazione tra tre fattori: allievo, insegnante e sapere; allora ponendo l’allievo come termine fondamentale si rischia di appiattire la didattica all’allievo, alle sue esigenze, ai suoi punti di vista, alle sue strutture cognitive e metacognitive, spesso totalmente errate, etc.

Il sapere e anche il saper fare, hanno anch’essi le loro “esigenze” (le loro ragioni che l’allievo non comprende, direbbe Pascal), che non possono piegarsi totalmente all’imperialismo dell’allievo (imperialismo che nei fatti non esiste, esiste negli scritti ministeriali e nella teorie riduzionistiche per cui la didattica si risolve in una teoria dell’apprendimento).

Quando si parla di approcci learner-centred (contrapposto a teacher-centred o topic-centred) s’intende dire che vanno tenute in considerazione prioritariamente le “condizioni” proprie di chi apprende e cioè le sue rappresentazioni di una questione, ciò che già sa, le sue teorie native, le sue misconcezioni, i suoi valori, le sue credenze … o per agganciarsi a queste o, quando serve, per contrastarle. Il “conflitto cognitivo” è un importante attivatore dell’apprendimento. In ogni caso si impara solo nei termini di ciò che già si sa. Parlo (parliamo) di apprendimento significativo, non di apprendimento meccanico.

Non si tratta di “imperialismo” dell’allievo, nessun costruttivista lo ha mai propugnato. L’allievo va, anche, sfidato, nelle sue teorie ingenue (che spesso ci sono, anche negli adulti, anche negli insegnanti a proposito di apprendimento [Jonassen diceva che, sulla base della sua esperienza con tantissimi insegnanti, molti di questi hanno una debole comprensione dei meccanismi dell’apprendimento]), va attivato e sostenuto, ove necessario, il suo cambiamento concettuale. Certo, l’insegnante deve essere capace di farlo. Se no ricerca scorciatoie, quelle che tu chiami “semplificazionismo dogmatico e miracolistico”.

 

Per esempio, in filosofia, si riscontrano immediatamente difficoltà e incapacità, da parte degli studenti, a pensare in termini “astratti” e/o a “pensare logicamente”, strutturando con coerenza il proprio argomentare.
Anche l’esercizio del “pensiero critico” è spesso estraneo al modo in cui gli studenti sviluppano le loro credenze, basandosi sul “sentito dire” o sul “principio del gregge”, siccome tutti dicono e pensano così è giusto dire e pensare così.

Tutte le forme di pensiero possono essere sviluppate. Se il “pensiero critico” non è presente va promosso, sostenuto, sviluppato. Non si arriva a scuola già …imparati …. Io trovo molto utile la metafora dell’allenamento. Un bravo allenatore ti aiuta ad arrivare dove da solo non saresti mai arrivato. Bisogna, però, saper allenare. Se proponi uno sforzo eccessivo non ottieni nulla, ti rompi, ti demotivi … non fai alcun progresso. Il pensiero critico è un traguardo, una conquista, non un punto di partenza. Pensare, poi, non lo si fa in termini astratti ma sempre attorno a un contenuto in un contesto

Spesso introdurre al pensiero critico, all’argomentare logico al pensiero astratto non comporta integrare nuove conoscenze nella struttura cognitiva e nelle conoscenze personali dell’allievo, MA comporta la parziale soppressione delle vecchie conoscenze dell’allievo e la riconfigurazione parziale della sua struttura cognitiva. Sono proprio questi, e non solo a mio avviso, i casi più “significativi” di apprendimento significativo, ma è proprio in questi casi che il peso e le istanze del sapere e il ruolo dell’insegnante si fanno sentire maggiormente ed è in queste situazioni che all’imperialismo dello studente deve subentrare la “federazione” tra “chi insegna”, “chi apprende” e”cosa si apprende” al motto di “uno per tutti e tutti per uno”.

Nessun costruttivista degno di tale nome ha mai invocato la scomparsa dell’insegnante, tanto nel costruttivismo BIG (Beyond Information Given) che nel più radicale costruttivismo WIG (Without Information Given). La funzione didattica è assolutamente necessaria in ogni situazione definibile “didattica” e il suo valore aggiunto si deve sempre vedere

Parlavo prima di ristrutturazione cognitiva relativamente alla comprensione di fatti, principi, regole ….. e chi, se non l’insegnante è in grado di attivare e gestire questo processo?

Sul “federalismo” non mai avuto dubbi. Rimane sempre attuale il concetto di “relazione educativa”.

Un breve post scriptum sulla centralità dello studente che è presente solo  negli scritti ministeriali (Gianfranco): è, purtroppo, vero perchè quella centralità è una strumentalizzazione politica dello studente   fatta, da un lato, per imporre alla scuola contenuti, metodologie e strumenti di dubbio valore pedagogico e didattico ma orientati culturalmente ed economicamente e dall’altro per svalorizzare, marginalizzandolo, il ruolo dell’insegnante.

 

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