Un commento in Facebook di Bruno Santoro ai “Principi per un’educazione democratica” di Philippe Meirieu (pedagogista francese che sarà presto in Italia per due conferenze organizzate da Enrica Ena, in calce i link al programma) mi riporta ad un tema che mi è caro da tempo: le pratiche didattiche reali come si costruiscono? come si migliorano?
In fondo la professione dell’insegnante cos’altro è se non una costante attività di ricerca e azione? Bruno Santoro
Da sempre studio l’intrigante, il misterioso, l’affascinante processo dell’apprendimento e come questo possa essere attivato e sostenuto attraverso l’insegnamento.
Ho letto e leggo libri, soprattutto in lingua inglese; ho osservato e osservo pratiche reali … provo, riesamino il lavoro, rifletto, sistematizzo, riprovo …. ma è un discorso sempre aperto: non ho verità alle quali ancorarmi, non ho verità da “trasmettere” nella mia formazione.
La letteratura ci fornisce una mole impressionante di studi e ricerche condotti con rigoroso metodo scientifico su come le persone apprendono e lo fanno da numerosi punti di vista. In letteratura possiamo anche trovare evidenze di maggiore efficacia di taluni dispositivi didattici rispetto ad altri, così come troviamo non poche discordanze anche concettuali tra studiosi di diversa matrice teoretica che confutano, dati alla mano, le conclusioni cui altri loro colleghi sono giunti, sempre dati alla mano.
L’insegnante, il professionista che è chiamato ad attivare e a sostenere l’apprendimento degli studenti in contesti reali, ha a propria disposizione un ampio repertorio tanto di teorie che di pratiche … tutte “scientificamente” validate ma anche, soprattutto in tempi recenti, ha a disposizione anche tanti approcci e dispositivi che definire empirici sarebbe un eufemismo ma che sono diventati popolari grazie ad un marketing martellante. Sono approcci a-pedagogici e spinti da finalità commerciali e spesso sostenuti istituzionalmente per promuovere una idea di scuola funzionale alla contingenza politica ed economica.
In ogni caso, la cassetta degli attrezzi che l’insegnante ha a propria disposizione è ricca di strumenti che vanno dal tradizionale all’innovativo, dallo scientificamente testato all’empirico, ma nonostante ciò, ogni volta che l’insegnante entra in classe, nella stessa classe in giorni diversi, in una classe diversa dall’altra, deve affrontare una sfida sempre nuova perché ha a che fare con “organismi” e non con “macchine” e le variabili da controllare sono numerose e non tutte a nostra conoscenza, ma anche perché, a dispetto della “scientificità”, quando parliamo di apprendimento non abbiamo “verità” cui aggrapparci fideisticamente per impostare la nostra azione.
A poco serve, quindi, avere a disposizione un ampio repertorio di approcci e soluzioni, perché nessuno di questi assicura risultati certi pur in date condizioni, per cui nella sostanziale assenza di “verità” in campo pedagogico e didattico, l’unica vera guida per l’insegnante è l’atteggiamento del ricercatore.
L’insegnante-ricercatore osserva e documenta la propria pratica, la riesamina anche – e meglio – con i colleghi, ne identifica le criticità e cerca correttivi; si pone nella prospettiva del miglioramento continuo assumendo come ipotesi le tante “evidenze” che la letteratura offre.
Se posso enunciare una “verità” direi che
Si può migliorare solo ciò che si fa
Il miglioramento – duraturo – della didattica avviene solo migliorando qualcosa che noi abbiamo fatto o che altri hanno fatto. Il miglioramento è solo e sempre incrementale.
Non di rado gli studiosi dell’apprendimento si lamentano perché le “scoperte scientifiche” in quel ambito stentano ad essere incorporate nelle pratiche didattiche: il “sapere” che governa le pratiche scolastiche reali è un “sapere pratico” più che un “sapere teorico”, un sapere frutto della sedimentazione di pratiche riflettute e migliorate iterativamente più che di “applicazione” di teorie accademiche. Se mi si può passare un gioco di parole, la teoria alla quale viene improntato l’agire dell’insegnante è la “teoria estratta” (dalle pratiche) più che la “teoria astratta” * tipica del sapere accademico. Questo, dal resto, è quanto avviene in tutte le professioni.
Il sapere pratico può essere strutturato, raccolto a distribuito attraverso la narrazione, attraverso “storie” (Bruner), una modalità naturale per organizzare in modo sistematizzato l’esperienza e di utilizzarla anche per sé stessi.
Ecco perché nello sviluppo professionale degli insegnanti (interessanti i lavori di Marguertite Altet, David Jonassen, Roger Schank ) dovrebbero trovare posto pratiche quali la documentazione, la riflessione, la narrazione, la produzione di “storie” di didattica, la loro condivisione, il loro riesame, dovrebbe esser valorizzata la prospettiva soggettiva dalla quale guardare e valorizzare il proprio lavoro.
Una questione che rimane, comunque, aperta riguarda il contributo del sapere teorico alla costruzione del sapere pratico. Il fallimento dell’implementazione delle conoscenze scientifiche nelle pratiche didattiche potrebbe essere dovuto al malinteso significato attribuito alla teoria:
Io credo che la teoria non vada applicata ma vada usata; la teoria non andrebbe vista nella sua dimensione oggettiva ma in quella soggettiva.
Adottare una prospettiva soggettiva significa, anche, assumersi la responsabilità delle proprie scelte e dei risultati, vuol dire, anche, saper discernere tra le mille opzioni: nulla di strano, l’insegnante non è un impiegato della conoscenza, ma un professionista riflessivo e un ricerca-attore 🙂
PS
Non vorrei che le mie affermazioni sull’assenza di “verità” pedagogiche e didattiche suonassero come il disconoscimento supponente di decenni i ricerca pedagogica e didattica e del lavoro di tanti pedagogisti e didatti (anche se a volte penso che se la conquista dello spazio fosse stata gestita con il passo della pedagogia, con i risultati della ricerca di tanti pedagogisti nostrani, il Voyager 1 più che oltrepassare l’eliopausa non avrebbe superato il cancello di casa), queste mie riflessioni significano, piuttosto, che a fronte di ogni concetto, dispositivo, tecnica, metodo, strumento con cui veniamo in contatto, l’atteggiamento più funzionale sia quello di domandarsi:
Che senso ha tutto questo per me? Che uso ne posso fare nelle mie attività didattiche?
Sarebbe sbagliato, soprattutto perché inutile, fare come qualcuno ci ha detto di fare (per me è sempre una frustrazione sentire dire: ho fatto come Marconato mi ha detto di fare), sia esso un formatore, un manuale, un libro di testo o il vangelo del bravo insegnante.
Conferenze con Meirieu
Scheda informativa completa: http://bit.ly/31bo7AV
Locandina:http://bit.ly/36r0d5s
* Teoria astratta e teoria estratta non sono espressioni di mia invenzione ma non saprei a chi attribuirle. Le usava spesso Beppe Tacconi nel nostro progetto Storie di didattica www.storiedididattica.it e www.storiedididattica.it/blog (al momento – 04.02.2020 – i siti presentano problemi di accesso)
Buongiorno, non conoscevo l’autore fino a quando, incuriosita dal titolo, ho salvato il link dell’art.del 3 1 2020. Ora, in questa pausa forzata di didattica a distanza, ho ripreso il link e letto l’articolo.
Subito mi sono trovata in sintonia con l’autore, ho letto altri suoi articoli, e ora arrivo a questo sull’insegnante -ricercatore. Condivido in pieno quanto afferma l’autore.
Ho alle spalle una ricca e lunga esperienza di ricerca di base(biologia molecolare e genetica) e solo poi sono approdata all’insegnamento. Tanti mi guardano strabuzzando gli occhi poi arriva la fatidica domanda sulle ragioni del cambiamento di lavoro. In questi anni di esperienza come docente, spesso ho riflettuto su ciò, ecco il mio pensiero: trovo molta sintonia fra il vecchio lavoro e questo, oggi sto portando avanti una “ricerca sul campo” a cui devo dare immediatamente risposte e soluzioni. E qui sta la sfida più vera di questo fantastico ma faticoso lavoro.
Grazie.
Grazie per il riscontro: è una conferma della sensatezza dell’approccio! Grazie anche per l’attenzione alle mie riflessioni