Disegno di Miriam Piro

Sono anni che faccio il formatore, soprattutto di adulti; negli ultimi 10 anche di insegnanti, e mi domando continuamente se quello che faccio serve a qualcuno: più che risposte trovo tante domande.

La principale domanda riguarda quale formazione serva, cioè quale formazione aiuti gli insegnanti a fare meglio il proprio lavoro.

Questa domanda apre una voragine di questioni preliminari su cosa significhi insegnare, su chi sia il bravo insegnante, su cosa voglia dire imparare, su quale sia lo scopo della scuola …cose da niente ….

Bypassando queste e altre questioni, sono giunto alla conclusione che i risultati della (mia) formazione sono legati al caso: lo stesso intervento ad alcuni miei “allievi” serve molto, per altri è acqua fresca. Eppure sono sempre io a fare formazione, con la mia esperienza, con la mia competenza, con la mia consapevolezza. Sono sempre io … ma i risultati sono molto differenti.

Mi sono, quindi, domandato cosa faccia la differenza per cercare di lavorare su questo aspetto al fine di aumentare, pur di poco, l’efficacia delle risorse che vengono immesse in questo lavoro (il tempo degli insegnanti e mio, la nostra fatica, i soldi pubblici e, soprattutto, la credibilità che ha la formazione e la fiducia che in essa viene posta per arricchire la propria professionalità).

La risposta che mi sono dato è che il nodo cruciale è rappresentato da come il singolo insegnante, ma anche la micro comunità di insegnanti (un team, un dipartimento, meno un Collegio) integra il “contenuto” della formazione nelle proprie pratiche didattiche ordinarie. La questione, infatti, è come la formazione inneschi cambiamenti stabili nell’azione didattica e non cambiamenti provvisori sull’onda di un entusiasmo (?) suscitato da un insieme di circostanze favorevoli o, peggio, da ingiunzioni (anche normative) ed esortazioni moralistiche a cambiare.

Con questo approccio entriamo nel campo del CAMBIAMENTO, una dimensione prima psicologica e poi cognitiva.

Il vero cambiamento, quello stabile, non viene innescato facilmente e, soprattutto, non viene innescato a comando; il (vero) cambiamento non è una modifica meccanica del comportamento – questa viene solo in un secondo momento – ma si fonda sulla modifica interna dei riferimenti valoriali e concettuali.

Come mettere in movimento tutto questo? Come farlo attraverso la formazione?

Innanzitutto, quello che il formatore dice (i “contenuti” che propone) conta davvero poco a determinare il risultato finale (anche se per ottenere quel poco è necessario che il formatore dica cose sensate e non stupidaggini).

Quello che incide pesantemente è, invece, l’architettura dell’azione formativa, la sua struttura, la combinazione delle parti. Incide molto nel determinare il risultato finale la scelta degli elementi che costituiscono il cosiddetto corso, le cose che farà il formatore e le cose che faranno gli insegnanti-allievi.

In breve, a contare sono la forma e il contenuto dell’ambiente di apprendimento concepito, sviluppato e gestito dal formatore. Ciò che conta è l’esperienza di apprendimento che l’insegnante-allievo potrà vivere. Non i “contenuti” proposti.

La formazione efficace ha natura sistemica, è fatta di più elementi sapientemente scelti e mixati.

Ad esempio, un ambiente di apprendimento che ho utilizzato alcune decine di volte quando andava di moda la formazione per le competenze era costituito da poche lezioni in senso classico e molta ma molta attività svolta dagli insegnanti sulla base di consegne (anche negoziate), con mie revisioni in corso d’opera e finale degli elaborati ma anche con l’applicazione sperimentale, supervisionata, di quanto prodotto e, per concludere, il riesame finale dell’esperienza con l’identificazione di come mettere a sistema quanto sperimentato. Come si vede, tanta “attività” e poco “contenuto”.

Quando inizialmente ho parlato di risultati a macchina di leopardo della “mia” formazione mi riferivo ad esperienze di questo tipo, ad attività, cioè, di ricerca-azione di durata annuale.

Il risultato ottenuto in queste condizioni, poco o tanto che fosse, era determinato in modo consistente da quanto gli insegnanti-allievi già sapevano e già facevano e che veniva recuperato, riesaminato, sistematizzato, arricchito e ri-finalizzato.

Il valore aggiunto, nella misura in cui si è potuto esprimere (a volte anche poco), era dato dalla possibilità che la formazione offriva di riflettere sulle proprie pratiche didattiche, di farlo nel gruppo di colleghi, nella micro comunità e di poterlo fare con un supporto esterno in grado di attivare e gestire alcune delle dinamiche del cambiamento.

Detta così, il mio approccio formativo potrebbe sembrare il metodo perfetto o, almeno, ideale ma non è affatto così. È un approccio di ripiego, di compromesso rispetto a quello che considero il modo più utile di fare formazione, cioè stimolare il cambiamento: se potessi fare formazione come credo sia necessario fare farei qualcosa di simile ai Circoli di Qualità, ovvero i Circoli di Didattica, un approccio che ho proposto più e più volte ma che non mi è stato mai possibile realizzare. È un approccio che si ispira alla Ricerca-Azione nell’attivazione del circuito analisi – riflessione – azione e ai T-Group nelle concettualizzazioni di Kurt Lewin dove l’autocentratura, in questo caso, è sul proprio agire professionale.

Il presupposto di quelli che chiamo Circoli di Didattica è che si può migliorare solo ciò che si sa fare già: non si possono impiantare ex novo pratiche didattiche mai agite. L’approdo a pratiche didattiche del tutto nuove sarà possibile solo attraverso avvicinamenti progressivi, sempre che l’insegnante abbia trovato una ragione per farlo.

I Circoli di Didattica sono percorsi a partecipazione decisa dal singolo insegnante, da svolgersi in piccoli gruppi, focalizzati sul riesame riflessivo delle proprie pratiche didattiche e, in linea di principio, non dovrebbero essere inizialmente orientati ad una specifica tematica, in quanto la stessa dovrebbe emergere dai lavori del gruppo e dai problemi che emergono. A fronte di una precisa esigenza, di un problema già identificato, i lavori possono essere orientati verso quella tematica avendo cura di non presentare come prescrittiva o predeterminata la soluzione da implementare.

Quella che, sulla base della mie esperienza, ritengo sia la formazione che serve è una formazione aperta come contenuto, che abbia come finalità lo sviluppo professionale nella direzione scelta dall’insegnante, a partecipazione libera, una formazione a cui chi partecipa lo faccia con la mente, con il cuore e con la convinzione di voler fare qualcosa per sé e per i propri studente.

Ogni altra formazione si riduce, nel migliore dei casi. al gioco delle parti e a cambiamenti solo momentanei.

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