(*) questo è quanto affermano alcuni. In realtà il cervello non è cambiato almeno negli ultimi mille anni. Oggi abbiamo qualche conoscenza in più su come si impara grazie, anche, agli studi dell’apprendimento umano in situazioni reali andando oltre lo studio dell’apprendimento animale per poi trasferire sulle persone gli esiti di quegli studi.
Recentemente, in un libro scritto con il sociologo Ricolfi, suo marito, (Il danno scolastico, la scuola progressista come macchina di diseguaglianza) Paola Mastrocola dice che la scuola si rivolge alle prime file della classe.
Un inciso: quando parliamo oggi di “scuola” dobbiamo intenderci di quale scuola parliamo: la scuola che possiamo chiamare “tradizionale”, quella che punta, o che vorrebbe puntare, a sviluppare cultura, conoscenza per la conoscenza, quella che ha come finalizzazione lo sviluppo dell’intera persona? Oppure quella che possiamo chiamare “innovativa”, che punta a favorire lo sviluppo di conoscenza utile, che pensa prioritariamente a fornire le competenze per accedere al lavoro? Quella che ritiene che senza fatica non si impari o quella che non è necessario far fatica per imparare? Quella delle conoscenze disciplinari o quelle delle competenze? Ho certamente semplificato nel delineare le tipologie di scuola (si potrebbe scrivere un libro), quel che è certo è che non esiste una sola scuola … almeno nelle intenzioni. Unico tratto comune: tutte puntano al bene dello studente. Evidentemente ci sono idee differenti su quale sia il bene dello studente.
Anticipando le conclusioni si possono identificare due questioni centrali, un’evidenza e una scelta:
- Nel contesto socioculturale in cui viviamo da almeno una ventina d’anni la scuola ha abbandonato il suo scopo primario di tramandare i valori di una cultura perché i giovani non condividono più il medesimo paradigma culturale.
- La scuola, preso atto di questo cambiamento antropologico, deve colludere con la nuova cultura e assumendo un atteggiamento difensivistico per garantirsi un ruolo (e la sopravvivenza), adattarsi alle richieste della società e compiere essa stessa un cambiamento genetico oppure cercare di arginare la deriva della perdita di centralità della persona e di vedere, invece, la persona come produttore e consumatore?
Il punto vero è che in questa società la cultura, l’arte, la conoscenza, la bellezza non sono più criteri fondanti della civiltà e della società (ed è comprensibile che sia così nella società dei consumi massa), quindi, per quanto ci si sforzi di innovare e di rendere efficace la didattica, di fatto il cambiamento antropologico delle ultime due generazioni rende inservibili questi strumenti.
Sotto la spinta di numerosi fattori, sono completamente cambiati i riferimenti valoriali e, di conseguenza, anche la sensibilità, l’interesse per tutto ciò che è cultura, conoscenza, bellezza, arte.
Cosa penserebbe un invasore alieno del tutto differente da noi di una rosa in boccio o della Pietà di Michelangelo? Riuscirebbe a cogliere la bellezza nel viso di una donna bellissima?
Questo è quanto succede a sempre più ampie fasce di giovani insensibili al bello, anche se iper-bombardati di informazioni attraverso una scuola sempre più “inclusiva”.
La dimostrazione del cambiamento antropologico sta nel fatto che la didattica, anche quella buona, non può praticamente nulla quando si scontra con un paradigma totalmente differente, con valori che vengono costruiti altrove da agenzie ben più potenti ed efficaci nel costruirli e promuoverli. Pensiamo alla televisione, ai valori che trasmette, ai comportamenti vincenti, alla comunicazione nei social network, agli influencer globali e di paese.
Se un giovane è educato al paradigma del consumo semplice, facile e veloce, come può valorizzare ciò che richiede tempo, capacità di ascolto, osservazione, riflessione? Semplice: non può. Non è sensibilizzato a questo atteggiamento, non è “programmato” per questo.
E la scuola, quella che vorrebbe costruire cultura, sapere solido, non riesce a “riprogrammare” i giovani in tal senso perché non ha armi, cioè non ha una “merce da vendere” che sia più accattivante del facile e rapido consumo.
La scuola, come la abbiamo sempre conosciuta, fonda il suo intervento su un paradigma fatto a pezzi dalla civiltà dei consumi.
È per questo che internet anziché essere una grande opportunità di conoscenza per tutti, e quindi di democrazia, è diventata la migliore arma in mano alla nuova cultura del consumo. Che è già egemone in ogni campo.
Attenzione: la scuola non è rimasta immobile di fronte ai cambiamenti di cui ho parlato, ma è cambiata, però, nella prospettiva di inseguire la cultura di massa per cercare di arginare il disastro e per cercare di legittimarsi nel nuovo scenario. Questa scuola mente a se stessa quando afferma di farlo, perché è una guerra persa in partenza.
I riferimenti culturali su cui si basa la scuola, l’idea di istruzione sono quelli del canone occidentale classico, che però è entrato in crisi da almeno 40 anni ed è definitivamente crollato con l’avvento di Internet.
Questa generazione fonda la sua visione del mondo e la sua epistemologia su una piattaforma culturale che non è quella su cui si fonda la scuola. Cambia il sistema di valori, la rappresentazione del mondo, le priorità, i linguaggi…
Quello che la scuola fa con le didattiche cosiddette innovative è solo tentare di inseguire questa generazione, rendendosi accattivante e non comprendendo che il problema non è essere accattivante. Il problema è che la scuola così concepita, come agenzia che trasmette un assetto culturale, con il suo sistema di valori e di linguaggi, è morta. Forse, è morta l’idea stessa di “scuola”.
È morta perché morta è quella cultura.
Questa cultura (quella della civiltà dei consumi) sembra simile alla precedente, ma è completamente diversa, sia nella rappresentazione del mondo, sia nei principi etici ed estetici. Quindi, rincorrere i giovani scimmiottandone i linguaggi e i temi nella speranza di far passare qualcosa che sia totalmente diverso ormai è fallimentare. Ma è evidente che sia così.
Se si ha l’onestà intellettuale di stare in classe non raccontandosi che basta capovolgere la classe o mettere banchi a rotelle o usare le tecnologie o altre diavolerie didattiche “innovative” per rendere accattivante l’idea di scuola, allora questa cosa la si vede.
La scuola “nuova” non dovrebbe, pertanto, perseguire la finalità di interiorizzare in profondità contenuti complessi per costruirsi un’identità attraverso l’apprendimento curricolare? Dobbiamo rassegnarci all’idea che il sistema di formazione delle generazioni giovani da parte di quelle più anziane e finalizzato alla trasmissione del patrimonio culturale sia definitivamente saltato? Almeno per i più.
Voler mantenere in vita una scuola costruttrice di cultura avrebbe il sapore un rituale che perpetua se stesso senza che vi sia reale significato?
Ho la sensazione che con questo cambiamento antropologico sia saltato il modello di scuola di massa che coltivava l’utopia dell’acculturazione delle masse e della produzione di democrazia attraverso la cultura.
La “scuola di massa” è così diventata una scuola senza troppe pretese di acculturazione e che si limita a fornire ai più poche, essenziali, conoscenze, quelle che servono ad essere prioritariamente un bravo produttore e consumatore. La nuova “cittadinanza” sarà, pertanto, caratterizzata da un’istruzione essenziale per fronteggiare responsabilmente le richieste dell’economia e per poter partecipare ai consumi necessari al mantenimento dell’economia. L’inclusione in questa scuola si concretizza come opportunità per tutti di partecipare al ciclo produzione – consumo.
Lo stabilirsi della scuola di massa frutto dell’inseguimento delle richieste, anche implicite, dello studente che vive immerso nel consumo semplice, facile e veloce, lascia spazio alla scuola delle élite, élite prima culturali, poi sociali, politiche ed economiche.
Anche se la diagnosi è sbagliata, le conclusioni di Ricolfi e Mastrocola sono corrette: questa scuola (la scuola “innovativa” non la scuola progressista) è una macchina di diseguaglianza . E non se ne è accorta.
Caro Gianni. Di scuola non ce n’è solo una. Ho visto generazioni di insegnanti che interpretano o credono di interpretare i gusti dei nuovi giovani. Ho visto genitori e insegnanti che sono proprio diventati come le ultime generazioni di giovani e non hanno alcun bisogno di interpretare perché “sono” tali e quali. Ma vedo tuttora moltissimi colleghi che resistono e a fatica, fatica spesso ricambiata e riconosciuta, riescono a ottenere un molto, e non un semplificato, che va ben oltre l’immediatezza del facile consumo. Similmente ci sono anche molti ragazzi anche più “modificabili” e meno strutturati dei “bravi di una volta” che gioiosamente gradiscono questa scuola che ad altri sembra aliena. Al contrario della maggioranza del tutto inconsapevole e che però viene a scuola in quanto unico luogo di socializzazione dove, interrotta da qualche breve tentativo di lezione, può praticare la cultura del branco. Alla fine la scuola riesce ancora a distinguersi dalle altre “agenzie” e a curare la persona umana. E grazie a questa componente buona si riesce a tollerare anche docenti meno flessibili, meno riflessivi, per i quali invece non sembra essere passato nemmeno uno di questi 40 anni (v. Mastrocola e tanti che conosco di persona), rimasti al centro del processo educativo, fossilizzati su un proprio programma invariante che nel tempo è diventato pratica didattica immutabile e incomunicante con le altre. E contrariamente alla visione che descrivi qui, ai ragazzi distratti di oggi questa didattica piace. L’addestramento acritico ha sempre avuto successo in tutte le epoche.
Voglio dire che la società moderna ha comportato un incremento del bisogno di capacità critiche e di consapevolezza, perché è aumentata la complessità del vivere e la spersonalizzazione dell’individuo e delle sue forme associative più primitive, quali la stessa famiglia. Al tempo stesso la società in mano al mercato deve distruggere la riflessione individuale lenta, la consapevolezza, perché, come scriveva ieri Luttazzi sul fatto quotidiano, deve “trasformare il pensiero del consumatore in riflesso condizionato”, oltre che liberarlo, nel consumo, da ogni legame di sesso, età, religione, famigliare ecc. [A che serve, secondo te, la trasmissione “Il Collegio”?]
Quindi serve un’autorità pedagogica in difesa del compito della scuola di oggi, che non è quello di cui ci si accontentava ieri e, anche allora, con scarso successo. Questa autorità avrebbe il compito di costruire a partire da ciò che ancora di buono esiste, come modelli di insegnanti e alunni. Questi dovrebbero poter parlare, raccontarsi. Perché non è detto che i ragazzi impegnati sulle tastierine smart non tirino su la testa e non aprano le orecchie. E magari chiudere la trasmissione “Il Collegio” e farne una meno distopica e più “educational”.
Alfredo, non so davvero come se ne possa uscire da questa scuola che insegue come un commerciante il cliente, anzi, come un bottegaio. Ci sono insegnanti che resistono ma questo costa loro tantissimo.
Metterò in evidenza questo tuo pezzo di commento
Voglio dire che la società moderna ha comportato un incremento del bisogno di capacità critiche e di consapevolezza, perché è aumentata la complessità del vivere e la spersonalizzazione dell’individuo e delle sue forme associative più primitive, quali la stessa famiglia. Al tempo stesso la società in mano al mercato deve distruggere la riflessione individuale lenta, la consapevolezza, perché, come scriveva ieri Luttazzi sul fatto quotidiano, deve “trasformare il pensiero del consumatore in riflesso condizionato”, oltre che liberarlo, nel consumo, da ogni legame di sesso, età, religione, famigliare ecc