Questa è una domanda che mi frulla per il cervello da tempo e credo di avere già scritto qualcosa a proposito. Forse quando ho scritto proposito dei libri di testo e sostenevo che il libro di testo, dettando la programmazione didattica all’insegnante, lo priva di una delle funzioni più ricche del suo mestiere e lo confina in un ruolo di mero esecutore di un copione deciso da altri.
Riprendo e rilancio il tema sulla scia di un commento che Marco Guastavigna, insegnante di valore, ha fatto in un mio recente post in questo blog:
L’illusione è che il nostro mestiere sia culturalmente qualificato: è invece una prestazione impiegatizia di basso livello (poco fare, poco pagare) in un sistema di istruzione a bassi investimenti, con intorno un ceto parassitario di grilli parlanti. Gli afflati individuali – io ne ho avuti per 30 anni, pensando che fossero andamenti collettivi – sono eccezioni, non regole
Marco parla di “prestazione impiegatizia” e di una modalità operativa sintetizzabile nel “poco fare, poco pagare”. Evidentemente la situazione prevalente è questa, senza negare non poche, pur isolate, punte alte.
Ma non siamo solo Marco ed io a pensar che l’insegnante, nei fatti svolga un ruolo “impiegatizio” (ovviamente non ritenendo questa la prospettiva ideale), ma c’è tutta una pedagogia, anche nostrana, che concettualizza il ruolo dell’insegnante in una prospettiva “esecutrice”, quella prende forma nella logica dei libri di testo, delle risorse didattiche strutturate, nella programmazione didattica anch’essa strutturata, nella formulazione di teorie pedagogiche e didattiche prescrittive.
C’è tutta una pedagogia che vede l’insegnante come un impiegato della conoscenza
Nulla contro gli impiegati, ovviamente.
Questa pedagogia implicitamente, ma non troppo, postula che all’insegnante non si debba chiedere troppo, che non lo si debba sovraccaricare di compiti come programmare, progettare, produrre risorse didattiche e che qualcuno lo rifornisca di guide, direttive, strumenti, che si sostituisca a lui nello svolgimento di numerose attività tipiche del “ciclo” della didattica, in modo che lui si dedichi nel tempo che ha, con le competenze (basse) che ha, a mettere in scena una programmazione stabilita da altri utilizzando risorse che altri (qualificati, gente che “sa”) hanno prodotto per lui.
C’è, insomma chi postula per l’insegnante un ruolo impiegatizio/esecutivo. Forse si tratta di un atteggiamento dettato da realismo: se questa è la classe insegnante, mettiamola nelle condizioni di non nuocere.
Non mi dilungo qui sul valore sociale, culturale, professionale e personale dell’istruzione, di certo la sua gestione non può avvenire attraverso pratiche standardizzate e stereotipate né, tanto meno, attraverso pratiche decise centralisticamente dal Grande Educatore.
Questa visione non deriva solo dall’assunzione di valori etici, sociali o culturali ma si fonda solidamente sulla natura della “merce ” che come insegnanti trattiamo, l’apprendimento.
L’apprendimento è un processo biologico, non meccanico
L’insegnamento è una attività artigianale, non industriale (1)
L’artigiano lavora su pezzi unici, progetta continuamente, aggiusta il lavoro in corso d’opera, costruisce i propri strumenti.
Fuori di analogia, il lavoro dell’insegnante è un tipico lavoro che richiede un intervento che si sviluppa lungo tutto il processo “produttivo”.
Ovvio che questo approccio approccio è dettato da una visione dello scopo dell’insegnamento e, come tutti i punti vista, parziale.
Se, per contro,si considera l’ istruzione come indottrinamento, anche disciplinare, allora è giusto che la stessa sia fortemente strutturata, che l’insegnante abbia pochi, meglio nessuno, margini di discrezionalità, che il suo sia un lavoro di impacchettamento e distribuzione di contenuti-informazioni, che non abbia grilli metodologici per la testa, che faccia con diligenza ciò che gli viene richiesto.
Faccia, e sia, un impiegato della conoscenza, anzi, dell’informazione.
Per me non è così.
(1) La nostra scuola è frutto dell’industrializzazione dei sistemi di ‘istruzione, un’istruzione di massa per una scuola di massa. Una risposta “sconveniente” ad uno scopo nobile. E’ frutto, anche, della risposta “scientifica” che agli inizio del ventesimo secolo si cercava all’esigenza di formare tante persone non disponendo di insegnanti adeguatamente preparati; ciò che si cercavano erano tecniche didattiche che dovessero essere (papagallescamente) applicate, certi dell’ottenimento di un buon risultato. Senza domandarsi e senza capire il perché.
Questa nostra scuola è frutto, in particolare delle “scoperte” scientifiche messe a punto dalle forze armate americane per preparare le proprie truppe impegnate nella seconda guerra mondiale: tanta gente da addestrare in poco tempo (*). L’ Instructional Design e il modello ADDIE (vedi wikipedia) ne sono la concretizzazione concettuale, il primo, ed operativa, il secondo.
(*) Ora anche le forze armate si sono evolute e la formazione dei reparti operativi attivi in scenari critici viene fatta con sofisticate tecniche di impronta cognitivista basate sulla Cognitive Task Analysis e sul training cognitivo.
L’immagine retorica della scuola come pilastro della società rivela la sua inconsistenza culturale e la sua consistenza ideologica proprio nella considerazione e nello spazio riservati all’insagnante e all’insegnamento. L’insegnante è “pubblico impiego” è parte dell’ “esecutivo”: in quanto tale, segue delle direttive. Semplicemente e brutalmente. In questa prospettiva c’è spazio solo per due tipi di insegnante: l’insegnante-travet e l’insegnante-missionario. Entrambi fanno dell’ “obbedienza” un valore costitutivo della loro identità sociale e professionale e, di conseguenza, la trasformano anche in un modello da trasmettere. Dell’insegnante come intellettuale a livello critico, dell’insegnante come operatore relazionale, dell’insegnante come “tecnico dell’intenzionalità” (Piero Bertolini) non c’è traccia se non come rischio: dopo Don Milani, dopo Ivan Illich questo rischio appare anche come una prospettiva possibile ma non perché accolta e adottata da un sistema che sembra fatto per mortificare le sue stesse risorse intellettuali e premia la mediocrità, la confusione tra “dirigere” e “comandare”, la condizione separata e semplificatrice dello “studio” rispetto alla realtà contemporanea complessa, la “classicità” come feticcio, il “taylorismo” organizzativo; il tutto, spacciato come parte del “servizio pubblico” e del “welfare”. La prospettiva “critica” resiste, resiste, resiste solo come spazio paradossale e come prassi individuale sempre più precario.
Paolo, analisi davvero potente. Complessa, articolata, ricca di spunti. Anche se nel sui insieme dipinge uno scenario senza speranza per una scuola non asservita
Paolo, il tuo commento continua ad intrigarmi e ad interrogarmi. Lo ho copiato in una pagina e lo sto meditando. Quello che dipingi mi pare uno scenario con poca speranza. Quanto, secondo te, è lecito averne?
Nella mia visione apocalittico-darwiniana vedo la scuola dell’epoca gelminiana come l’inizio di un’era glaciale. Io appartengo alla specie “Homo sapiens Gutenbergensis” e non posso che svolgere il mio ruolo, cercando di integrare certe comodità informatiche ma senza la pretesa di farmi una “forma mentis” paragonabile a quella dei “nativi digitali” (Homo sapiens Zuckerbergensis) e senza sapere se, alla fine della glaciazione gelminiana, sopravviveranno gli uni, gli altri o gli ibridi
Concordo pienamente con lo spirito dell’articolo. Anche l’ultima suggestione che serpeggia in questo momento, quella dell’insegnamento come artigianato, non mi rende felice. Perchè non lavorare in modo che l’insegnante recuperi la dimensione “intellettuale” del proprio lavoro? E’ così assurdo che chi si occupa di cultura possa essere un intellettuale?
Mi accorgo solo ora del commento di Paolo Cinque. Dice benissimo quello che intendevo anche io. Chiedo scusa per l’irruzione brusca con il mio primo commento, dunque.
Anna, artigiano era in contrapposizione ad industriale. altro bel tema quello dell’ insegnante come intellettuale