Mi capita sott’occhio un commento ad un mio post rilanciato dal portale Youreducation. Parlavo delle condizioni per un buon apprendimento e argomentavo sull’efficacia della didattica “attiva”. Commenti di condivisione delle mie affermazioni ma anche quello che segue di dissenso (ringrazio l’insegnante che lo ha fatto) dove si parla dei colleghi che hanno avuto gli studenti arrivati da lei, colpevoli di aver fatto demagogia con la scuola “senza zaino” e di non aver favorito alcun apprendimento stabile e conclude con l’esortazione a insegnare per davvero, a fare fatica loro stessi e a far faticare gli studenti :
Insegno alle superiori, ho due allieve che vengono da una scuola media “senza zaino”, quelle scuole dove i ragazzi lavorano solo a scuola, in gruppi, senza lavoro a casa, senza prove di verifica ecc..
Un vero disastro, realmente un handicap. Abbiamo dovuto lavorare molto insieme perché recuperassero la capacità di stare al passo con gli altri, in grado di capire gli argomenti e di impadronirsi dei metodi.
Qualcuno prima di noi ha fatto demagogia, qualcuno le ha imbrogliate.
Dareste una minestrina annacquata a ragazzi di quella età che hanno fame di pastasciutta? Cari colleghi, insegnate per davvero, insegnate roba sostanziosa: farete fatica voi, farete fare fatica ai ragazzi, ma ne vale la pena.
Tralascio il fatto che le affermazioni sono fatte riferendosi alle prestazioni scolastiche di 2 studentesse e prendo il riscontro come avesse un suo fondamento statistico, ma mi interessa questo atto d’accusa alla didattica non convenzionale per mettere in evidenza alcune questioni chiave correlate con le “nuove” didattiche:
- Cosa si impara, a cosa dà valore la scuola: è’ probabile che le studentesse “senza zaino” abbiano imparato tante cose che la scuola superiore non valorizza ma che possono averle indubbiamente arricchite anche in prospettiva del loro percorso scolastico;
- Malinteso senso del “fare fatica”: senza “fatica” non si impara, non c’è via di scampo. La questione riguarda il tipo di “fatica” da chiedere agli studenti. Non certo la “fatica” di “seguire” o di “ascoltare” o di “studiare” in modo meccanico, ma la fatica di svolgere attività impegnative come la ricerca, l’analisi, la riflessione, la costruzione, la collaborazione e di farlo anche per periodi lunghi raccogliendo feedback, riesaminando il proprio lavoro … La fatica che va chiesta è sul piano dell’impegno cognitivo ed emotivo non per operazioni meccaniche;
- Retorica dell’innovazione e non competenza didattica: non basta che una didattica sia “nuova” nel nome e nella forma esteriore per esprimere la sua efficacia; non di rado i pseudo-innovatori non hanno solide basi didattiche e le “nuove” metodologie non sono efficaci non tanto per la propria natura intrinseca ma per come sono utilizzate da insegnanti inadeguati. Vedo circolare più slogan che fatti e ancor meno risultati;
- Inefficacia di innovazioni episodiche: posto che il punto 1 abbia una sua veridicità, l’insieme del riscontro fatto ci presenta il problema di come un’innovazione per essere efficace debba avvenire a livello di sistema per avere coerenza di obiettivi su cui lavorare e impatto dei risultati ma anche come meta-messaggio che ricevono gli studenti su cosa sia “scuola”. Se tutti gli insegnanti fanno didattica frontale, quello che fa didattica attiva è visto come il deviante e la sua modalità didattica, per ben che vada, non gradita.
Per concludere, i temi che il commento su cui ho focalizzato questa riflessione mettono alla mia (e, forse, vostra) attenzione sono:
- Non banalizzazione dell’innovazione e consapevolezza didattica;
- Difficoltà dell’innovazione e del cambiamento;
- Creazioni delle condizioni di contesto per un cambiamento del sistema.
Per intanto, sperimentiamo tranquillamente, senza troppa enfasi e trionfalismo ma con tenacia. Meglio se si hanno le idee chiare.