veline

 Cambiare la didattica è difficile

Ovvero, l’effimero didattico contemporaneo
So bene che a scuola si fa fatica a gestire l’ordinario e con tanta buona volontà si cerca di fare qualcosa in più per dare qualche chance agli studenti. So bene che la scuola va avanti a suon di miracoli da parte di insegnanti e dirigenti, ma … ma la scuola è anche altro. Luci e ombre. Luci che per alcuni sono ombre e ombre che per altri sono luci. Le ombre che io vedo.
Una sorprendente sintonia con  un recente contratto in Facebook, che ha rilanciato un mio post dal blog (frutto come spesso accade di interazioni pubbliche e private), ha portato a un confronto sul perché sia tanto difficile cambiare didattica.
Antichi fermenti pedagogici 
Questione complessa, ma il discorso è presto andato al fermento pedagogico e didattico che c’era a scuola, ad esempio negli anni ’80 per non andare indietro fino agli anni ’50 con il Movimento per la Cooperazione Educativa e di altre associazioni e all’impatto che tutto questo ha avuto nel determinare la qualità della scuola di quel tempo e che ancora fa sentire i suoi effetti in qualche enclave.
Tutto frutto certamente di grandi pensatori di fine 800 e di più recenti pedagogisti come Dewey, Montessori, Bruner, Illich, Vygotskij, Freinet, Freire, Kilpatrick … dell’ attivismo pedagogico, della pedagogia popolare, non direttiva e libertaria e di una straordinaria collaborazione e osmosi tra pensatori e pratici, tra l’università e la scuola.
Erano i tempi dell’autentico interesse per una scuola di qualità, di una scuola democratica, per lo studente.
Erano i tempi di un senso alto della professione d’insegnante. Una professione vissuta convintamente nella sperimentazione, nella ricerca-azione, nei laboratori, nella didattica attiva….
Erano tempi in cui si aveva un approccio all’ “innovazione” diverso da quello che si ha oggi, tanto diversi erano i presupposti culturali e i valori di quelli che animano gli “innovatori” contemporanei.
Poi tutto zittito da una politica dal pensiero corto all’attacco di quello che, con disprezzo, è stato chiamato pedagogismo.
Allora molta riflessività, molta modestia, tanto lavoro nell’ombra, molta prudenza e anche pudore nel comunicare i risultati, molto spirito di collaborazione. Il vero successo era il successo del gruppo, non del singolo.
Sotto i riflettori 
Veline, velone, tronisti e animatori
Oggi, non sempre, per fortuna ma in misura che desta preoccupazione, abbiamo una professione vissuta sotto i riflettori, nell’apparenza, nell’esibizionismo, nell’edonismo, nella spettacolarizzazione, nell’apparire, nel far a gara per essere il migliore, a raccogliere più titoli come bollini da supermercato. E basi professionali deboli
La competizione, in tanti casi, ha preso il posto della collaborazione. L’effimero si è sostituito al solido. Il lavoro sotto i riflettori di qualche evento inconsistente si è sostituito al lavoro nell’ombra della classe.
La scuola tutta, alla spasmodica ricerca di studenti e finanziamenti cerca, spesso con argomenti da Grande fratello, la ribalta mediatica.
Il rapporto con i luoghi della conoscenza si è sostituito con il rapporto con i luoghi dell’economia, con le aziende, con Confindustria. La scuola è sempre più un mercato per il mondo esterno e sempre meno luogo di aspettative di cultura e conoscenza.
La cultura del consumo, del successo, dell’ apparire, dell’effimero si è impadronita anche di una parte di scuola e la rende sempre più abitata da veline, velone, tronisti e animatori.
Applausi, like,…. il vuoto. Non ce la faremo mai. Siamo schiavi nel tempo dell’ effimero. Il format del successo televisivo ha preso anche la scuola.
Ma c’è ancora una scuola che tiene, una scuola che non sta sotto i riflettori. Questa è la scuola che mi piace e al fianco della quale io starò sempre.

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