Ho recentemente letto un articoletto scritto da non so chi ma, visto il tono, certamente da un operatore della catena della retorica innovativista e digitale sulla scuola, sul rischio di fallimento del piano ministeriale per la così detta scuola digitale.

Lì il potenziale fallimento era attribuito alla cattiva formazione (del “personale”) che si sta facendo per promuovere, con adeguato indottrinamento di dirigenti e insegnanti, il programma di cambiamento della scuola italiana ideato dal governo.

Quel piano, animato da pensiero magico è, invece destinato a fallire per cause ben peggiori e strategiche, ovvero per l’insussistenza dei suoi presupposti: che la scuola possa cambiare (in meglio, ovviamente) grazie a massicce dosi di digitale.

Da Wikipedia:

Il pensiero magico costituisce un tipo di elaborazione cognitiva in cui manca una relazione causale tra soggetto e oggetto. ….. Come la scienza, alla magia vengono attribuiti relazioni causali ma, a differenza della scienza, il magico sottende spesso un errore di base nella correlazione delle cause. Assunto fondamentale del pensiero magico è l’idea di poter influenzare la realtà secondo i pensieri e i desideri personali.

Questa definizione rende chiaro il motivo per cui parlo di “pensiero magico” alla base  delle politiche scolastiche degli ultimi due governi.

Che il digitale sia la chiave di volta dell’intera impalcatura del movimento di “innovazione” conosciuto come buonascuola è chiaramente detto nella premessa politica del piano per la “scuola digitale” e più volte ribadito dalla potente macchina della propaganda governativa messa al servizio di quel disegno squisitamente politico.

Qui il digitale appare chiaramente come la strategia risolutiva degli annosi e incancreniti problemi della scuola, un pilastro fondamentale della 107.

Perché, allora, “pensiero magico”?

Perché (a scuola) si vuol cavalcare il cavallo che rappresenta la rivoluzione del momento e che trasforma l’economia, la società e le pratiche quotidiane pensando che analoga trasformazione possa essere generata anche a scuola.

La scuola ha un proprio significato, ha una propria funzione nella società, ha propri meccanismi di funzionamento, ha propri “criteri di successo”.

Il digitale, inteso come contenuto e strumento, a scuola può dare un contributo per attrezzare i giovani con le conoscenze e le abilità necessarie a vivere il proprio futuro ma il futuro è fatto di tante dimensioni, di tante problematiche che meritano attenzione da parte della scuola.

Credere che il digitale, a cascata, attivi tutti i meccanismi necessari a far star bene il giovane nel mondo futuro è compiere un atto di ingenuità, è compiere un’analisi pressapochista dei meccanismi del cambiamento, significa aver preso un enorme abbaglio.

Oppure ….

Oppure sta a significare che chi governa le politiche di sviluppo ed educative aderisce in pieno al modello di sviluppo che ha caratterizzato il recente passato e il presente, un modello mercantile dove la “persona” è sostituita dal “consumatore’, dove al cittadino medio non servono tante conoscenze per un lavoro sempre più a basso contenuto, dove prevale la routine, dove le conoscenze “alte” servono a un gruppo ristretto di persone.

Si ha in mente un modello di sviluppo dove saranno sempre più centrali le macchine, dove il fattore umano sarà sempre più marginale, dove tutto sarà solo digitale, dove il nuovo lessico e la nuova grammatica saranno il “digitale”.

Opporsi a questo modello di sviluppo, opporsi alla “scuola digitale” di stampo governativo non significa opporsi al digitale in quanto tale, ma opporsi a questa visione di digitale, opporsi all’ineluttabilità del digitale; opporsi al #tuttodigitale, significa confinare il digitale al ruolo di uno dei tanti aspetti del presente e, considerata la sua invadenza, imparare a conoscerlo oltre le apparenze, a conoscerlo nelle sue trappole, a tenerlo a debita distanza, a usarlo con diffidenza. Soprattutto a usarlo e non a farsi usare. Il digitale non è sempre e solo buono (perché il digitale è anche buono e utile, sia chiaro).

Con questo atteggiamento va affrontato e gestito anche il digitale a scuola: digitale si, ma….

Il “digitale” a scuola ci deve stare, pur con tanti se e tanti ma. Non  ha senso pensare a una scuola dove il digitale viene chiuso fuori dalla scuola, ma…

I “ma” sono tanti e riguardano, dal punto di vista strettamente pedagogico e didattico, gli impatti negativi sulle abilità cognitive delle persone, soprattutto le più giovani, che fanno intenso uso delle tecnologie digitali (approccio alle informazioni, tipo di conoscenza che si costruisce, superficiale, piena di buchi, limitazioni al pensiero ricco, profondo, flessibile, critico…).

Altri “ma” fanno riferimento alla reale portata del digitale di “cambiare” (in meglio) i processi di apprendimento e il senso stesso della scuola.

Il digitale è uno strumento e nessuno strumento cambia una pratica se non c’è un pensiero di una pratica diversa (che, poi, lo strumento può supportare).

Dire, come si sente dire, “si, usiamo il digitale ma all’interno di intenzionalità didattica” è la più chiara testimonianza di come al centro ci sia ancora lo strumento, uno strumento al quale trovare un senso, non un bisogno educativo da soddisfare con lo strumento più adeguato.

Siamo sempre al “cosa posso fare con questo?” e ancora lontani dal “cosa mi serve?”, ancora lontani da una visione educativa e pedagogica e da un’esigenza didattica che è alla ricerca di una modalità di essere soddisfatta.

Assumere la prospettiva “cosa mi serve” implica che si abbiano obiettivi di sviluppo e di apprendimento da conseguire, che si abbia una visione educativa della propria azione (qual è il ruolo della scuola, perché insegno, chi è la persona con cui mi relaziono, cosa ritengo importante insegnare), che si abbia una strategia didattica attraverso cui rendere operativa quella visione, che si sia in grado di scegliere tra più opzioni e si sappia argomentare quella scelta.

All’interno di un approccio simile non si vedrà mai una “scuola digitale” come non si avrà mai una “didattica digitale” e non si avrà alcun bisogno dell’ “insegnante digitale”.

Ogni discorso sul digitale sarà secondario e subordinato al discorso educativo, pedagogico e didattico.

Solo quando questo cambiamento sarà avvenuto avremo normalizzato anche il digitale  e non ci sarà più alcun rischio di fallimento dei piani “digitali” perchè al pensiero magico si sarà sostituito un pensiero maturo e razionale.

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