Stimolato dall’intervista che mi è stata fatta da Valigia blu sui recenti fatti di Napoli e Carpi nell’alternanza scuola lavoro e sulle reazioni scomposte della scuola, ho approfondito il mio pensiero sui fatti e sull’alternanza stessa. Sviluppo le domande che mi sono state poste, precisando che, pur sintetizzato, il mio pensiero è ripreso fedelmente nel contributo di Angelo Romano.

Contrabbando d’istruzione, codardia educativa, arroganza formativa, competenze di cittadinanza per educande, ecco il significato di quegli episodi.

Rispetto all’alternanza scuola-lavoro ci sono due opinioni opposte: da un lato, chi sottolinea l’esperienza formativa che consente di sondare come funziona il mondo del lavoro, dall’altro chi sottolinea il fatto che sia lavoro non pagato e quindi sfruttamento (come hanno fatto anche gli studenti di Napoli e lo studente di Carpi). Che tipo di esperienza è da un punto di vista formativo l’alternanza scuola-lavoro e come si integra e cambia il fare scuola?

In senso astratto si potrebbe dire che qualsiasi esperienza ti cambia, cioè ti forma. Da questa prospettiva diventa difficile negare che anche un’esperienza che gli studenti fanno trascorrendo alcune ore del loro tempo-scuola (400 ore ripartite fra il terzo e il quarto anno nelle scuole tecniche e professionali, 200 nei licei) in contesti di lavoro una qualche forma di apprendimento venga generata e, infine, serva. Difficile, anche, negare che un contatto con il mondo del lavoro mentre si è studenti un suo senso lo possa avere: lavoretti estivi sono pratica comune per numerosi studenti, così come una posizione di studente-lavoratore anche nelle scuole superiori non è cosa rara.

La questione diventa un problema quando l’esperienza di lavoro viene resa obbligatoria per legge per tutti gli studenti e quando questa esperienza porta ad una diminuzione non marginale del tempo della didattica. Diventa un problema perché in queste condizioni la questione vera è: quale idea di scuola ci sta dietro all’alternanza scuola-lavoro?

L’alternanza non è “solo” un breve periodo di esperienza del lavoro ma è una visione di scuola che si sta imponendo, una scuola il cui scopo non è di imparare per la vita ma di preparare ad una parte della vita, cioè al lavoro. Questa visione porta a considerare la scuola sempre più in una prospettiva professionalizzante e sempre meno focalizzata sullo sviluppo della persona nella sua interezza.

L’alternanza scuola lavoro segna lo spartiacque tra una scuola fatta per imparare e una scuola che prepara al lavoro adattando le persone alle esigenze del lavoro in modo acritico.

L’alternanza scuola lavoro, spostando per i giovani il luogo dell’apprendimento al di fuori della scuola stessa (il Jobs Act, nel capitolo “apprendistato” rinforza questa tendenza rendendo possibile l’acquisizione di titoli di studio anche universitari e post-universitari attraverso esperienze lavorative che coprono anche metà del tempo-scuola), segnala la delegittimazione definitiva della scuola stessa dal suo essere agenzia di preparazione delle persone al loro futuro che, è bene ricordarlo, non è solo lavoro. Una scuola sempre più marginale, ritenuta irrilevante nel formare le generazioni future, privata della sua identità storica, una scuola sempre meno diretta da principi pedagogici e umanistici e sempre più diretta da principi economici. Siamo alla scuola dell’ossessione economica.

Nella quasi totalità dei casi, le esperienze di alternanza non hanno alcuna rilevanza né con il percorso di studi e neppure con il fare un’esperienza di lavoro in tutte le sue sfaccettature. Le aziende non sono pronte per gestire reali percorsi di apprendimento e, forse, non se lo possono neppure permettere (le aziende sono luoghi di produzione e questo devono garantire prioritariamente; una presenza estranea è un costo per l’azienda e non c’è nulla di strano che mettano in atto comportamenti che gli studenti più attenti considerano “sfruttamento”).

Per fare dell’alternanza una vera esperienza formativa si dovrebbero realizzare veri e propri “progetti di apprendimento”, attività che le aziende non potrebbero integrare nelle proprie attività produttive se non distogliendo risorse e che neppure il personale scolastico sarebbe in grado di ideare e gestire. Il risultato è che anche se in teoria un’esperienza di apprendimento nel processo di lavoro potrebbe aver senso (e dal punto di vista scolastico non lo ha), in pratica non si può realizzare e si riduce, nel migliore dei casi, ad essere una perdita di tempo per tutti, nel peggiore uno sfruttamento istituzionalizzato e obbligatorio del lavoro gratuito (e non formativo) degli studenti.

L’alternanza scuola-lavoro modifica il DNA della scuola, la finalizza alla produzione (e al consumo) di beni, la svuota di insegnamento formalizzato e promuove apprendimenti deboli e meccanici, quelli tipici di un apprendistato cognitivamente povero perché focalizzato sul cosa senza spingersi al perché essendo così limitato nelle sue capacità di transfer.

Anche in settori scolastici a dichiarato orientamento professionale, come ad esempio l’alberghiero, l’alternanza scuola-lavoro, promossa come occasione di apprendimento e per fare esperienza, in realtà è un’attività lavorativa a basso contenuto professionale, ripetitiva, intensa (anche 12 ore consecutive) e non pagata. Non poche strutture alberghiere funzionano d’estate con un organico dove gli studenti hanno un ruolo fondamentale. Spesso, l’alternanza è contrabbando di formazione.

Che cosa significano nella loro eterogeneità le vicende di Napoli e Carpi? Che messaggio danno a livello educativo e di istituzione scolastica? Quale messaggio restituiscono agli studenti?

L’istituzionalizzazione di una consistente esperienza lavorativa a scuola evidenzia in modo plastico la mutazione genetica della scuola stessa e questo cambiamento non sta bene a tutti. Ci sono persone che rifiutano la logica che la scuola abbia al centro del proprio interesse il lavoratore e, in senso più ampio, l’economia e non più la cultura e la persona e non si fanno abbagliare dalla retorica dell’ineluttabilità della prospettiva lavorativa e, soprattutto (caso Napoli) che l’esperienza di lavoro proposta attraverso l’alternanza scuola lavoro abbia valore formativo coerente con il percorso di studio e risponda più a logiche ideologiche che pedagogiche e didattiche. Il significato dei casi Napoli e Carpi è quello del rifiuto della logica che informa l’alternanza, è un “non ci sto”, è una richiesta di inversione di rotta, non sussurrata ma urlata mettendoci la faccia, ben consapevoli, gli studenti, che avrebbero subito ritorsioni. Il fatto di Napoli ha messo in evidenza un altro fatto inquietante: un’organizzazione esterna ed estranea alla scuola, il FAI, ritiene di determinare le decisioni proprie della scuola e questo la dice lunga sulla considerazione in cui viene tenuta la scuola, un atteggiamento di cui si dovrebbero rammaricare tutte le persone che hanno a cuore le sorti della scuola quando, invece, supinamente, insegnanti e dirigenti si allineano a quelle ingiunzioni.

L’istituzione scolastica da di sé una pessima immagine perché rinuncia alla propria funzione educativa, assumendo quella che potremo chiamare una finzione educativa, si accoda alle richieste del mondo esterno, si fonde con esso e non contribuisce a costruire, a mo’ di membrana (rubo questa metafora a Gianfranco Marini) quello sguardo critico e riflessivo che è la premessa per essere cittadini consapevoli e responsabili e gli studenti rinfacciano alla scuola questa perdita di orientamento alla persona. Agli studenti quei fatti restituiscono il messaggio: la scuola non sta pensando al vostro vero futuro, non è più una vostra alleata.

L’impressione è che sia a Napoli che a Carpi sia saltato il dialogo tra i soggetti protagonisti della scuola (docenti, presidi, tutor, studenti) e, a livello più globale, tra generazioni. Cosa fare per ricostruire le fila di questo dialogo? Come ricucire una comunità scolastica che sembra lacerata?

Non mi sento di dire che sia saltato alcun dialogo, semplicemente perché nei rapporti scolastici il dialogo non è l’abituale modalità di funzionamento. La scuola non è un’organizzazione paritaria o democratica perché è gerarchica. L’istituzione, e per essa presidi e docenti, ha più potere degli studenti. Ciò che, forse, è cambiato è un diverso atteggiamento degli studenti, da sempre molto rispettosi dell’autorità, ma dopo Napoli e Carpi, forse un po’ meno.

Da sempre la scuola italiana agisce in un territorio non accomunato da significati e valori condivisi e le tensioni nella società e anche dentro la scuola sono sempre state evidenti. Con la 107 queste tensioni si sono accentuate e chi detiene il potere (potere come comando, come dominio, non come opportunità di fare) lo usa senza mascheramenti. Forse gli eventi di cui stiamo parlando potrebbero creare una inedita saldatura tra la parte di cittadini, di insegnanti e di presidi che vedono la scuola come luogo di democrazia e gli studenti che non accettano che il mercato imponga le sue regole alla scuola. È una speranza, forse mal riposta, vista la compattezza delle istituzioni scolastiche nello stigmatizzare, con l’arma del voto, un comportamento da cittadini maturi dei suoi studenti.

La scuola, come organizzazione sociale particolare, potrebbe funzionare meglio se adottasse convintamente, anche attraverso meccanismi formali, la prospettiva della collaborazione invertendo la rotta rispetto alla cultura della competizione oggi dominante. Competizione tra studenti, tra insegnanti, tra scuole. La lacerazione del tessuto sociale scolastico non è frutto di meccanismi spontanei ma di decisioni politiche ben mirate e tenacemente perseguite.

L’utilizzo del voto in condotta che idea di scuola restituisce? Era l’unica soluzione perseguibile?

Evidentemente la scuola, rappresentata dagli insegnanti e dai dirigenti, ha dato una prova di debolezza, si è schierata con l’astrattezza dell’istituzione e non ha dato ascolto ed accoglienza alla realtà delle istanze degli studenti, ha scelto la strada più comoda e indolore, ha difeso le scelte politiche che hanno portato all’istituzione di questa nuova modalità di “apprendimento” e non si è voluta misurare con le ragioni di buona parte degli studenti. Una scuola che solo a parole afferma di porsi dalla parte degli studenti quando invece li utilizza per legittimare sé stessa. L’immagine che ne esce è quella di una scuola che di fronte ad un conflitto tra istituzione e persona, sceglie l’istituzione e sceglie di compiacere ai capi, adotta un comportamento autoritario per riaffermare la propria autorità, dimostra di non avete autorevolezza e perde una buona occasione per assolvere alla propria funzione educativa, d’istruzione e di formazione aprendo un confronto vero e non di maniera sulle loro argomentazioni, anzi liquidandole come posizioni pregiudiziali. Agli studenti, cui vuol imporre “competenze” di cittadinanza (edulcorate in salsa per educande), impedisce di esercitare i propri diritti di cittadinanza negandoli e utilizzando quella che, evidentemente, ha ritenuto essere l’unica arma a disposizione (il voto) dimenticando di poter contare sul dialogo ed accettando, eventualmente, di uscire “sconfitta” dal confronto. Spogliarsi dell’autorità per giocare la partita su di un piano di parità (che è l’unica modalità possibile per essere veramente educativa), evidentemente era un rischio troppo elevato. Oppure, non è stata operata alcuna scelta e la scuola ha agito con ordinaria e dovuta autoreferenzialità.

 

 

 

 

 

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