Oskar Kokoschka 

A scuola si può fare formazione (degli insegnanti)? Sono presenti le condizioni per fare vera “formazione”? Si vogliono conseguire obiettivi tipici della formazione lavorando in condizioni che caratterizzano l’addestramento?

Faccio chiarezza, anche  per non demonizzare termini e concetti importanti quali, ad esempio, memorizzazione e comprensione (poi passerò ad addestramento e formazione). “Comprensione” sarebbe, dunque, un obiettivo di apprendimento nobile, mentre “memorizzazione” risulterebbe in questa visione un obiettivo vile. Le cose, tuttavia, non stanno proprio così: la memorizzazione è riferita all’apprendimento di una procedura, di una sequenza, di termini tecnici, di definizioni, ed è, in effetti, un obiettivo di apprendimento molto importante quando si deve imparare a fare qualcosa e a interagire usando un lessico da specialista. La “memorizzazione” assume, al contrario, connotazioni negative (e nasce quindi il problema) quando, a scuola, le attività didattiche sono ricondotte prevalentemente a questo obiettivo. La storia, la letteratura, la geografia non sono solo memorizzazione di nomi, autori, periodi. Ecco, allora, che diventa importante assumere obiettivi di ordine più elevato, come la comprensione, attivando in tal modo processi cognitivi di ordine diverso (e più elevato) che richiedono strategie di insegnamento e di apprendimento differenti. Anche addestramento e formazione sono attività di apprendimento importanti e nobili, ma ……

… ma sono attività che hanno caratteristiche e condizioni di realizzazione e successo profondamente differenti. Sono attività che implicano, anche dei cambiamenti di ordine differente con ricadute etiche rilevanti.

Se a tutti si può chiedere a cuor leggero il cambiamento associato all’addestramento, non così è quando si parla di “formazione” nel senso proprio del termine.

Addestramento è imparare a fare qualcosa e ciò implica memorizzazione, applicazione e controllo esecutivo. È un’attività cognitiva finalizzata, sostanzialmente, al cambiamento di un comportamento esecutivo.

Formazione è cambiamento nel senso più profondo del termine; si tratta di un cambiamento che implica mutamenti psicologici, valoriali, cognitivi e concettuali permanenti. Il comportamento cui è finalizzata la formazione richiede un cambiamento nel proprio modo di pensare, di relazionarsi, di considerare il proprio ruolo; implica, in certa misura, un cambiamento di tratti della propria personalità professionale.

Come si può desumere già da questa descrizione essenziale, nell’addestramento e nella formazione si lavora per promuovere cambiamenti profondamente differenti, soprattutto dal punto di vista psicologico: il primo cambiamento non ha alcuna implicazione emotiva, il secondo esige una totale condivisione dei significati e delle implicazioni.

Nell’addestramento si cambia un comportamento e se ne adotta uno di nuovo anche “ubbidendo” ma nella formazione si cambia solo credendoci.

Spesso la “formazione” non funziona (sempre che di vera formazione si tratti – cioè di un’esperienza di apprendimento del tipo descritto in precedenza) perché le persone che vi partecipano non intendono coinvolgersi emotivamente e cognitivamente come è necessario per attivare il cambiamento auspicato.

Le persone non intendono coinvolgersi o perché non sono adeguatamente preparate/motivate, o perché non condividono il contesto e le finalità del cambiamento ovvero, reattivamente, per conflitti latenti o espliciti presenti nell’organizzazione.

Anche qualora le condizioni oggettive e soggettive per il cambiamento siano tutte presenti, il processo va innescato e gestito attraverso modi e tempi di lavoro adeguati alla natura del cambiamento da realizzare, modi e tempi che tengano conto dei processi psicologici e cognitivi coinvolti. Si tratta di tempi lunghi perché non è semplicemente questione di imparare a fare qualcosa -aspetto operativo- ma è necessario anche che si disponga di tempo per riesaminare le proprie pratiche e i loro presupposti concettuali, serve tempo per attivare e gestire il “conflitto cognitivo” qualora le proprie rappresentazioni concettuali (implicite? spontanee? native?) confliggano con i nuovi sistemi concettuali richiesti dall’oggetto della formazione; serve tempo rilevare la discordanza e procedere alla ristrutturazione. Tempi lunghi, quindi, e coinvolgimento anche emotivo.

Troppo spesso viene trascurato, forse anche perché ignorato, il cosiddetto “cambiamento concettuale”, il cambiamento dei presupposti teorici – spesso impliciti – che guidano l’azione. In ambito educativo e di istruzione, queste concettualizzazioni implicite possono riguardare l’idea di apprendimento che si ha e a cui si correlano modalità di insegnamento specifiche per promuoverlo, l’idea dello scopo della scuola e delle caratteristiche dei sistemi d’istruzione che possono realizzarlo …

In ogni caso, un’azione didattica, un’esperienza di apprendimento per i fini propri e tipici della “formazione” che non tengano in considerazione le condizioni soggettive e di contesto che sono necessarie a conseguire quei cambiamenti, sono destinate a fallire generando frustrazione tanto in chi promuove, quanto in chi è destinatario della formazione stessa. La formazione “impropria” si svolgerà in condizioni di difficoltà e sofferenza; se  porterà a cambiamenti, questi non saranno stabili e di lungo periodo, bensì destinati a ripristinare nel breve periodo tutti quei comportamenti che si intendeva modificare.

Con grave spreco di risorse psicologiche, cognitive, economiche ed organizzative.

Ecco perché “formazione obbligatoria” è un ossimoro o, nel migliore dei casi, un gioco delle parti.

Riprendendo le domande iniziali rispondo sulla base della mia pluriennale esperienza di “formazione” degli insegnanti.

A scuola è difficile fare vera “formazione” perché il più delle volte non ci sono le condizioni di contesto per farlo: non c’è il tempo necessario, non ci sono i soldi, ci si accontenta di quello che si può fare, si aprono tante questioni e si lascia alla buona volontà degli insegnanti portarle avanti. A volte la “formazione” viene imposta e allora gli insegnanti attivano contromisure difensive (esattamente come fanno gli studenti): nella migliore delle ipotesi si attiva qualcosa di nuovo e di bello nell’immediato, per tornare poco dopo alle pratiche abituali; nel peggiore si agisce meccanicamente e in modo approssimativo. Solo in un numero limitato di casi le proposte formative colgono nel segno e producono cambiamenti duraturi , ma è più una questione di predisposizione personale ad accogliere il nuovo che l’effetto di qualcosa di pianificato.

Con un approccio pragmatico, a scuola parrebbero esistere più facilmente le condizioni per attività addestrative che formative, ovvero attività per l’apprendimento di procedure didattiche operative, di dispositivi didattici semplici. Sono, comunque, apprendimenti importanti perché il singolo insegnante potrà, successivamente, integrarli armoniosamente e stabilmente nelle proprie pratiche e decidere per proprio conto se e come cambiare.

PS

Le considerazioni qui fatte riguardano gli aspetti psicologici  e cognitivi della “formazione” di adulti, aspetti dai quali non è possibile prescindere per ottenere un apprendimento e un cambiamento profondo e permanente. Non ho evidenziato gli aspetti etici connessi con l’esercizio di una qualsiasi professione e che portano a sentirsi impegnati in un processo di miglioramento continuo.

Non va, d’altronde, trascurato il fatto che alla “formazione” in ambito educativo sono associati “cambiamenti” che toccano la sfera valoriale del singolo insegnante, cambiamenti cui, legittimamente, l’insegnante può sottrarsi.

Non va, neppure, ignorato il fatto che le resistenze al cambiamento non hanno, in alcuni casi, alcuna motivazione nobile ma un semplice e vile atteggiamento che porta a lavorare al minimo vitale, e anche sotto.

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