E’ di ieri (15.04.2020) la notizia di una ragazzina “pentita” dell’eccessivo ottimismo manifestato un mesetto prima quando scrisse “andrà tutto bene” e che ci fa sapere, nel suo candore, che aveva scritto quelle parole “…perché lo volevano le maestre e i miei genitori”.
Questo episodio porta alla ribalta dei più una questione che mi intriga da tempo: l’influenzamento che si esercita a scuola.
Credo che qualunque cosa si faccia a scuola, qualunque argomento l’insegnante proponga allo studente, determini un orientamento del pensiero, dei valori, degli atteggiamenti.
Qualsiasi contenuto o metodo sia oggetto della proposta dell’insegnante riflette una visione culturale, sociale e, perché no, politica del senso della scuola.
Se questa direzione che si imprime anche alle coscienze degli studenti sia consapevole o meno all’insegnante cambia poco della rilevanza del tema.
Come cambia poco il fatto che a influenzare non siano solo le cose che si fanno ma anche quelle che non si fanno. Tacere o ignorare una questione è pur sempre una scelta, consapevole o non consapevole essa sia.
Le proposte o i silenzi degli insegnanti possono essere intenzionali e consapevoli oppure frutto di automatismi.
Non so se sia più colpevole/meritevole l’insegnante che propone/tace una questione per scelta o perché “si fa così”.
Io preferisco l’insegnante che quotidianamente sceglie a quello che si adegua all’andazzo generale.
Ritorno alla questione iniziale: in ogni caso l’insegnante interviene (orienta? influenza? manipola?) sul pensiero e sulla coscienza dello studente, ma non può essere diversamente visto che è l’insegnante a dover decidere cosa si deve imparare.
Non so a quanto possa servire auspicare un approccio plurale alle questioni che si portano nella didattica perché una preferenza sarà sempre espressa e perché già il fatto di portare all’attenzione degli studenti una tematica (o non farlo) è una scelta di campo.
È, allora, possibile attivare qualche contromisura al potere dell’insegnante (perché l’insegnante ha un POTERE) nel determinare il pensiero, gli atteggiamenti, i valori, la coscienza dello studente?
Una strada, pur potendo configurarsi con un’ingiunzione paradossale, potrebbe essere quella di “insegnare” ad essere disubbidienti, cioè insegnare a non conformarsi al dettato dell’autorità, assumendo un atteggiamento riflessivo e critico verso le indicazioni, le prescrizioni che gli arrivano da altre persone.
Certo è che la disubbidienza si deve fondare sulla consapevolezza delle ragioni del disubbidire.
Se ci disturba il concetto di disubbidienza possiamo ripiegare su quello più sfumato del “mettere in dubbio”.
Ogni persona libera dovrebbe essere in grado di mettere in dubbio le parole del politico, dei giornalisti, della pubblicità ma anche quelle dell’insegnante.
Avrei potuto parlare di “scuola” come soggetto che condiziona ma ho preferito fare riferimento all’insegnante perché “scuola” è un’entità astratta, la scuola è, per certi aspetti, un’istituzione totale, un grande Moloch che istituzionalmente deve adattare le persone al mondo così come è, mentre è proprio l’insegnante a poter aiutare gli studenti a non accettarlo così come è.
PS: per “insegnare” la disubbidienza l’insegnante per primo dovrebbe essere in grado di disubbidire.